di Maurizio Ferrera
Grazie alla efficace gestione dell’emergenza sanitaria, il gradimento della Cancelliera è salito al valore record del 70% e non è diminuito quando si è cominciato a parlare di solidarietà verso «gli amici italiani e spagnoli» e si è infranto il tabù degli euro-bond
Nelle democrazie i leader più capaci diventano «statisti» a pieno titolo solo quando escono di scena. Forse, dopo l’accordo raggiunto sul Recovery Fund, Angela Merkel merita un’eccezione, almeno per quanto riguarda il suo ruolo europeo. Nella cornice Ue — seguendo Habermas – uno statista si riconosce perché sa «fare la storia», ossia agisce nella consapevolezza che in certi momenti si devono prendere decisioni che influenzeranno i destini dell’intero continente e di molte generazioni a venire.
Si può essere più o meno soddisfatti dei suoi specifici contenuti; ma è difficile negare che il piano «Next Generation Eu» rappresenti un grande punto di svolta sotto questo profilo. Insieme alla moneta, la condivisione dei rischi economici e sociali è uno dei tratti che definiscono le comunità politiche e il loro impegno a durare nel tempo.
Solo una decina di anni fa erano in molti a pensare che Merkel non avesse la stoffa da statista, men che meno sulla scena europea. Durante la crisi del debito sovrano la Cancelliera era stata fortemente criticata — non senza qualche ragione —per il suo carattere pavido, la tendenza a rinviare le decisioni. Il suo cognome si trasformò in un verbo (merkeln) che da allora significa «temporeggiare». Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri e influente figura pubblica, l’accusò di aver rotto l’asse portante della politica tedesca: europeizzare problemi e soluzioni, rendere la Germania sempre più europea.
Con le sue chiusure verso la solidarietà finanziaria nei confronti dei paesi del Sud, Merkel aveva seguito la strada opposta: piegare l’Europa alle preferenze e agli interessi tedeschi … leggi tutto