di Mario Lavia
Cultura politica cercasi
La radicalizzazione di tutti i partiti di opposizione e della Cgil ha generato una gara a chi alza di più il volume, sviluppando un’idea della politica come protesta più che come progetto
Nell’introduzione a un interessante recente saggio di Giulio Sapelli (“Verso la fine del mondo”, ed. Guerini), Ludovico Festa, giornalista e intellettuale di grande esperienza, scrive: «In Italia, a una coalizione di centrodestra con diversi evidenti limiti (al netto di un’interessante politica estera) si contrappone una opposizione in cui tutti i cosiddetti leader (da Elly Schlein a Giuseppe Conte, da Maurizio Landini a Carlo Calenda) sono privi di una vera e seria cultura politica».
È un giudizio praticamente senz’appello, e ognuno può essere d’accordo o meno sulla sua drasticità. Tuttavia è un dato di fatto che l’ultima generazione del centrosinistra dimostra ogni giorno scarsa dimestichezza con una seria cultura politica, che è tale solo se è una vera cultura politica di governo.
Può darsi che congiuri anche il fatto che direttamente e pienamente il centrosinistra non governa più dal 2018, cioè un discreto lasso di tempo, e che non disponga come una volta nemmeno di grandi prove di governo locale.
Ma la domanda vera è se questa crescente radicalizzazione delle posizioni di tutti i partiti di sinistra sia un fatto tattico, cioè mossa dalla ricerca di consensi che si ritiene finiti nell’astensionismo, o se evidenzi piuttosto un mutamento di pelle dell’attuale opposizione. E cioè, per capirci, se i dirigenti, i quadri, gli intellettuali di riferimento e i militanti siano ormai calati dentro un’idea della politica come protesta più che come progetto, di testimonianza più che come governo o aspirazione al governo.
In questa fase, dietro la guida movimentista di Elly Schlein, il Partito democratico si è molto radicalizzato. Giuseppe Conte ha sposato una battaglia disarmista in politica estera e populista in campo sociale. Maurizio Landini fa cortei su tutto e adesso raccoglie le firme per un referendum contro il Jobs Act, nemmeno fosse la madre di tutte le ingiustizie (vedremo quanta gente andrà a votare), segno di una evidente voglia di rivincita verso la stagione renziana. Carlo Calenda esaspera i toni polemici attaccando praticamente tutti su tutti i fronti.
È una gara a chi alza di più il volume. Finendo talvolta per abbaiare alla luna, come in occasione delle mozioni di sfiducia a Matteo Salvini e a Daniela Santanchè, sapendo tutti benissimo che a nulla servono, al punto che è parso anche a molti deputati dell’opposizione un «vecchio rito della politica», come lo ha definito Augusto Minzolini; oppure scegliendo un comodo Aventino, come sul peraltro bruttissimo premierato.
L’impressione è che non si tratti solo di campagna elettorale. Si parla per slogan, si fanno gesti. Dov’è finita la competenza che c’era una volta nel Pci, nel Psi, nella Cgil? La vicenda delle liste del Partito democratico, su cui si scrive giustamente tanto, è emblematica: volontarie, giornalisti, si era parlato di scrittrici, e lasciamo stare il caso di Ilaria Salis, ma è questo quello che serve in Europa?
Ma al di là delle candidature, quante forze intellettuali, specialistiche, si sono avvicinate al centrosinistra in questa fase? Zero. E allora il recupero di una vera cultura politica al servizio di una candidatura a governare il Paese quando la destra avrà fallito dovrebbe essere l’assillo di queste forze. Purtroppo però viene il dubbio che questi gruppi dirigenti della sinistra a governare non ci pensino proprio.
È più facile fare cortei, Aventini e referendum.