di Massimiliano Panarari
Non c’è due senza tre…
I voti sull’Ucraina a Strasburgo (anche se tra vari dem serpeggia la tentazione di modificare la condotta tenuta sin qui), le regionali in Piemonte e ora la corsa per le amministrative a Bari. Le inchieste sul voto di scambio forniscono a Giuseppe Conte il destro per sfilarsi dalle primarie per il candidato sindaco del sinistracentro, proseguendo sulla strada dei distinguo e degli smarcamenti dal Pd.
Una nuova école barisienne, nel senso che quanto avvenuto a Bari “fa scuola”, e ribadisce che c’è del metodo nella condotta contiana. E c’è una paradossale “coerenza”, chiamiamola così, nel CamaleConte, a dispetto della linea strategica senza piano B che il Partito democratico ha strutturato negli anni del Conte II, a partire dall’indefettibile dottrina dell’«alleanza organica» di Goffredo Bettini (prontamente fatta propria anche dal kingmaker Dario Franceschini).
E se i dati di fatto si incaricano di smentire queste architetture politiche, peggio naturalmente per la realtà. E dire che il realismo politico era stato un patrimonio di rilievo di alcuni settori del fu Partito comunista italiano, poi i suoi eredi entrati hanno deciso di procedere a oltranza nella direzione (utopistica) di “romanizzare i barbari”, dalla Lega fino, per l’appunto, al Movimento 5 Stelle.
Nella convinzione che la cultura politica italiana dell’ultimo ventennio almeno sia egemonizzata dal populismo che doveva venire “rieducato”. Il M5S, nel frattempo, si è pure convertito nel partito personale di Giuseppe Conte, dopo essere stato quello bipersonale di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Con l’ex premier fortemente impegnato in una competizione con Elly Schlein per decidere chi debba guidare il fronte progressista.
Ma, al medesimo tempo, capace di avvalersi ampiamente dell’opzione exit dal “campo largo” quando insoddisfatto, privo di un candidato unitario “made in 5 Stelle” o con una prospettiva elettoralmente più proficua nel caso di corsa in “splendida solitudine”.
A conferma, per l’appunto, della natura intimamente populista e post-ideologica del Movimento, spostatosi nel quadrante progressista per ragioni che rimangono fondamentalmente tattiche e di opportunità, e in grado di fare incetta di maggiori consensi se si ripropone nella versione “classica” al di là della destra e della sinistra.
Una visione difatti “coerente” (siamo sempre dalle parti dei “paradossi postmoderni”) con un politico che fa del funambolismo e del gattopardismo la propria cifra distintiva presentandosi legibus solutus dalle regole di ingaggio di un’«alleanza organica» col Pd, da cui prende le distanze ogni volta che gli conviene.
A considerare la coalizione come strutturale, dunque, è soltanto la linea della segreteria dem che privilegia sempre e comunque il rapporto con il Movimento, considerando il nocciolo duro giallorosso come il motore del campo largo – in verità, “strutturalmente” più ristretto perché il potere di veto contiano nei confronti dei centristi viene esercitato con decisione, trovando per l’appunto una sponda assai in sintonia nel gruppo dirigente schleiniano.
Presso il quale si invoca innanzitutto l’«imprescindibile» esigenza aritmetica di poter contare sul Movimento 5 Stelle per provare a vincere (e questo argomento presenta dei fondamenti innegabili), dando però l’impressione che si tratti di una scelta politica “a prescindere”, che tende così a escludere chi non si allinea al primato giallorosso.
E, allora, si potrebbe agevolmente obiettare, proprio guardando ai dati elettorali, che la somma matematica non si traduce mai esattamente “in modo aritmetico” e che, in ogni caso, l’accoppiata Pd-M5S allargata a sinistra non è sufficiente per rendere il campo largo davvero competitivo. Il punto riguarda, infatti, la natura profonda dell’alleato a geometrie variabili M5S.
Peraltro intento, come tutti, a cercare di massimizzare alle europee la propria percentuale che, come da tradizione, si flette invece significativamente nelle elezioni amministrative. Così, accanto al tema del populismo genetico di questa formazione che col Pd non si amalgama al meglio («diciamo»…), c’è quello della sua marcata trasformazione, come si ricordava poc’anzi, nel “PdC”, il “Partito di Conte”.
Un ircocervo di partito notabilare-movimentista, sotto la guida non contendibile di un “Principe” che si considera molto machiavellico, e che effettivamente fa un po’ come gli pare nel fronte che dovrebbe essere progressista ma, dal grillismo in avanti, è diventato sempre più populista. Ovvero, il “campo giusto” (per Conte)…