di Alessandra Ricciardi
Parla Nicola Rossi, economista: serve una Commissione d’inchiesta.
E ora sarebbe il caso di spiegare agli italiani che non possiamo permetterci livelli di servizi pubblici di altre economie
Il 110% ha sfasciato i conti pubblici italiani, inutile girarci intorno. «Credo che ci siano gli estremi per il varo di una Commissione parlamentare di inchiesta per accertare le responsabilità nel disegno e nella concreta attuazione del Superbonus», dice Nicola Rossi, economista dell’Università Tor Vergata, già parlamentare del Pd.
E probabilmente 4 anni, tanti ne stima il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, nel Def, il documento di economia e finanza, base programmatica della prossima leggedi bilancio, non basteranno per rimettere le cose a posto. «Il prossimo quadriennio comincia a settembre. Conti in ordine ogni anno, dunque, e per parecchi anni. Se fossimo un paese normale, il risanamento strutturale delle finanze pubbliche dovrebbe essere un obiettivo nazionale, capace di unire maggioranza e opposizione.
Ma», argomenta Rossi, «temo che non ci si renda conto di quanto lo squilibrio delle finanze pubbliche incida sui margini di manovra della politica economica e sulla autonomia del paese». Ora «sarebbe il caso di spiegare agli italiani che non possiamo permetterci livelli di servizi pubblici che altre economie, più solide e dinamiche della nostra, possono permettersi».
Domanda. Il quadro dei conti pubblici delineato con il Def è devastante per l’impatto dei vari crediti dell’edilizia: tra superbonus e altre agevolazioni pesano per 219 miliardi sul bilancio dello stato. Come è stato possibile arrivare a queste cifre?
Risposta. Le gravi responsabilità nel disegno e nella concreta attuazione del Superbonus sono tanto chiare quanto note e facilmente ripartibili fra il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Economia dell’epoca. E sono responsabilità che non possono essere sminuite dal fatto che quasi tutte le forze politiche hanno evitato successivamente di prendere le distanze, come avrebbero potuto e dovuto. Personalmente credo che ci siano gli estremi per il varo di una Commissione parlamentare di inchiesta intesa ad accertare se ed in quale misura le personalità citate fossero state avvertite circa il potenziale dirompente di misure come il Superbonus.
D. Perché così dirompente?
R. Il potenziale si è potuto esprimere pienamente nel momento in cui si è passati dallo strumento delle deduzioni e detrazioni, che trovano un limite nella capienza dell’imposta personale, a quello dei crediti di imposta tout court. Non è obbligatorio – come è certamente vero nel caso di specie – che le autorità politiche abbiano cognizioni anche elementari di economia, e può anche accadere che le stesse autorità non avvertano la necessità di dotarsi delle competenze necessarie, ma è comunque essenziale che le amministrazioni – in tutte le loro articolazioni – forniscano loro tutti gli elementi del caso. Se ciò fosse accaduto – come mi auguro vivamente – la natura strettamente politica della politica dei bonus, nel senso meno nobile del termine, emergerebbe con chiarezza. Il voto di scambio non è solo quello che si sostanzia nel passaggio di mano di una banconota da 50 euro.
D. Ma il 110% non doveva servire a dare slancio all’economia? Perché gli effetti positivi sul bilancio non si vedono?
R. La mia convinzione è che l’impatto sull’andamento del prodotto ci sia stato ma – come era immaginabile – sia stato molto inferiore a quanto solitamente ipotizzato. L’effetto moltiplicatore della spesa pubblica – certamente di quella in conto corrente ma anche di quella in conto capitale – è tale da far pensare che nella stragrande maggioranza dei casi e salvo che non si presenti una emergenza, e, in quel caso, solo per la durata dell’emergenza stessa, la spesa pubblica in disavanzo sia uno strumento i cui effetti netti sono quasi sempre negativi.
D. Di fatto, Superbonus e agevolazioni ci costano più dei fondi PNRR che l’Italia ha a disposizione…
R. Questo lo dicono le cifre. Con la differenza che il PNRR è un programma di spesa pubblica propriamente detto inteso, in linea di principio, a far fare un salto di qualità al paese. Non è detto che l’obbiettivo sia raggiunto e, anzi, ci sono non pochi motivi per essere particolarmente cauti al riguardo. Molto diversa è invece la politica dei bonus il cui impatto principale non è solo o tanto quello finanziario quanto quello contenuto nel messaggio paternalistico e corruttivo che vi è implicito.
D. Nel Def si stima un Pil per il 2024 all’1%, in contrazione rispetto alle stime, una leggera crescita fino al 2026 e poi il ritorno nel 2027 allo 0,9% del 2023. Quali sono i fattori che determinano questo andamento?
R. Per quanto, come dicevo, l’impatto della spesa pubblica sui ritmi di crescita sia con ogni probabilità inferiore a quanto solitamente immaginato, è lecito supporre che un qualche impatto si osservi e questo spiega, credo, i tassi di crescita tendenziali del prossimo triennio che si collocano su livelli di qualche decimo superiori a quelli osservati in media negli ultimi due decenni. Ma quando gli effetti della spesa pubblica finanziata dal debito si saranno esauriti, visto che l’impatto delle riforme sulla crescita è altamente dubbio, cosa resterà della capacità di crescita dell’economia italiana? E di conseguenza come potrà mai essere sostenibile il debito pubblico che stiamo creando a piene mani, se non attraverso anni di scelte di bilancio tutt’altro che facili e probabilmente dolorose?
D. Giorgetti ha preso tempo per indicare tagli alla spesa pubblica. Dove mettere le mani? I tagli ai ministeri hanno normalmente scarso impatto.
R. L’elenco è noto da tempo. Con ogni probabilità non si tratta di cifre risolutive ma, nelle condizioni date, è bene partire dalla constatazione che anche le cifre più piccole possono contribuire significativamente alla disciplina delle finanze pubbliche. Così come può contribuirvi anche l’evitare scelte potenzialmente dannose per gli equilibri della finanza pubblica e mi riferisco in particolare al tema della autonomia differenziata, che, sia chiaro, non considero affatto come “la secessione dei ricchi”. Più in generale, sarebbe il caso di spiegare agli italiani che non possiamo permetterci livelli di servizi pubblici che altre economie, più solide e dinamiche della nostra, possono permettersi.
D. L’obiettivo è rimettere a posto i conti pubblici in 4 anni. Fattibile?
R. L’obiettivo primario è quello di mantenere fin dal prossimo autunno una politica di bilancio ispirata alla prudenza, al realismo e alla disciplina. Indicare l’obiettivo del quadriennio può lasciare immaginare che “ci penseremo fra quattro anni”. Non funziona così. Il prossimo quadriennio comincia a settembre. Conti in ordine ogni anno, dunque, e – temo – per parecchi anni. Se fossimo un paese normale, il risanamento strutturale delle finanze pubbliche dovrebbe essere un obiettivo nazionale, capace di unire maggioranza e opposizione. Ma temo che non ci si renda conto di quanto lo squilibrio delle finanze pubbliche incida sui margini di manovra della politica economica e sulla autonomia del paese. Del resto, questo nostro paese non ha esitato a dare dignità costituzionale alla difesa degli animali ma non ha battuto ciglio quando nel 2011 si è riscritta la Costituzione sostanzialmente abbattendo quel poco che rimaneva dell’articolo 81 voluto dai padri costituenti. Per questo paese, le generazioni future valgono meno degli animali domestici.
D. Il ministro Giorgetti ha avanzato l’auspicio che nuova Commissione UE possa allungare i tempi per l’attuazione del Pnrr. Il commissario Gentiloni ha confermato la scadenza. La questione è politica o di efficacia di investimenti?
R. È saggio tenere ferma per ora la scadenza del 2026. Lo sforzo messo in atto dai singoli paesi non può e non deve scemare. Ma sarà altrettanto saggio, arrivati al 2025, ipotizzare di portare a conclusione i progetti che dovessero eventualmente sforare marginalmente i tempi previsti.