La svolta degli aiuti americani (corriere.it)

di Paolo Mieli

Kiev e la tregua

Fortuna per i Repubblicani statunitensi — e per tutti noi — aver trovato alla propria guida (parlamentare) un tipo come Mike Johnson.

Fosse toccato a Kevin McCarthy, Steve Scalise, Jim Jordan o Tom Emmer — caduti tutti come birilli prima che dal «partito di Lincoln» venisse scelto come speaker alla Camera dei Rappresentanti il deputato della Louisiana — non è detto che lo stanziamento dei sessantuno miliardi a favore dell’Ucraina sarebbe andato in porto.

Tra l’altro pochi si aspettavano che il cinquantaduenne legale di Donald Trump nei processi di impeachment del ’19 e del ’21, il cattolico ultras, ostile al diritto di aborto e alle unioni gay, avesse intenzione o fosse capace di tessere una tela tra Democratici e i Repubblicani a vantaggio di Volodymyr Zelensky.

Per di più compiendo uno strappo che gli è costato l’aggressione da parte di due estremiste del trumpismo, Marjorie Taylor Greene e Lauren Boebert, in aggiunta all’ostilità, al momento del voto, di un’ampia fetta dei suoi rappresentati.

Talché, se Trump vincerà le elezioni di novembre (il che, però, a questo punto è meno scontato di quanto potesse apparire nelle settimane scorse), non è detto che le cose per lui si metteranno nel migliore dei modi. Anzi, è possibile che venga disarcionato ancor prima di quella scadenza. Ciò nonostante, Johnson si è messo in gioco e, al termine di una complessa manovra parlamentare, ce l’ha fatta.

Queste sono le sorprese di un’autentica democrazia come è — ancorché esposta a numerose ed evidenti insidie — quella degli Stati Uniti.

La sorpresa europea è stata più modesta. Nei sei mesi di paralisi americana, il nostro continente ha dato prova di non essere del tutto all’altezza della prova a cui è chiamato. Ha reso evidente al mondo intero che, nell’ora della verità, rimane quasi paralizzato. E può capitargli di assistere impotente al bombardamento di istallazioni civili nonché al progressivo crollo militare di un Paese amico. Di un Paese al quale pure ha promesso l’inclusione nella propria comunità in «tempi rapidi».

L’Europa ha costretto Zelensky e i suoi più importanti ministri a strattonare i nostri Paesi autodefinitisi «alleati» e a domandar loro se fossero ancora da considerarsi tali. Ha obbligato il leader ucraino a mettersi in ginocchio per implorare un aiuto «protettivo» contro missili che provocano stragi quotidiane. Stragi che, ad ogni evidenza, non toccano i nervi sensibili di nessuna delle opinioni pubbliche europee.

Il tutto mentre tra coloro che furono fin dall’inizio ostili alla causa di Kiev già si festeggia impudicamente l’umiliazione degli attuali governanti ucraini invocandone la resa travestita da «pace».

E ancora più impudicamente si ribadisce che, fossero stati seguiti i loro consigli, se cioè i suddetti governanti si fossero «arresi alla pace» fin dal 24 febbraio 2022, sarebbe stata risparmiata all’Ucraina una gran quantità di morti. «Pace» che era a portata di mano se un altro Johnson (Boris) non si fosse messo di mezzo e non avesse mandato all’aria, con il peso della sua provvisoria autorevolezza, una trattativa che stava per essere firmata a metà aprile del ’22.

Sembra uno scherzo, ma c’è qualcuno che davvero si dice convinto sia stato il «partito delle armi» a spingere Zelensky sulla via del conflitto. Con l’implicito sottinteso che anche adesso, qualora Zelensky si accingesse a battersi per mettere il proprio territorio nazionale al riparo dai missili russi, l’Ucraina si renderebbe colpevole di una «sanguinosa continuazione della guerra».

Se le cose stanno così, in che consisterebbe la sorpresa europea di cui abbiamo parlato? L’Europa, nei lunghissimi mesi in cui il disimpegno americano è apparso più che probabile, anziché sgretolarsi come lasciavano immaginare alcuni segnali della prim’ora, ha faticosamente messo a punto un proprio piano di sostegno all’Ucraina.

Un piano modesto, zeppo di promesse e con pochi impegni per l’immediato, ma pur sempre qualcosa per reggere l’urto nel caso l’esercito russo avesse compiuto un’azione definitiva di sfondamento. In altre parole, l’Europa ha dato prova di esserci, di restare unita e di rinunciare alla tentazione di sempre, quella di procedere in ordine sparso.

Pur in un contesto tra i più sfavorevoli, determinato dall’imminenza di elezioni in tutti i Paesi del continente, con opinioni pubbliche, come si è detto, poco sensibili (e ancor meno sensibilizzate) alla causa della difesa dell’indipendenza ucraina.

Forse — per l’incastro tra la delibera del Parlamento statunitense e il piano europeo — la vigilia dell’estate 2024 potrebbe rivelarsi il momento migliore per ottenere un affidabile accordo tra aggressore e aggredito. Dal momento che aggressore e aggredito si ritroveranno tra pochi giorni in condizioni simili a quelle in cui erano esattamente un anno fa.

E, nei dodici mesi trascorsi, hanno entrambi sperimentato cosa si può realizzare e fin dove si può arrivare lungo la via del combattimento. In tal caso i nuovi armamenti potrebbero essere utilizzati a difendere e garantire una tregua che all’inizio non potrà che avere contorni incerti e apparire poco rassicurante. Ma in seguito…

Se così fosse, il Nobel per la pace andrebbe assegnato non già a coloro che hanno sfacciatamente abusato di quella parola per oltre due anni, ma a Mike Johnson, l’ultras conservatore americano che, costruendo un ponte momentaneo tra Biden e Trump, l’ha resa possibile.

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