di Federico Rampini
Gaza e le università
L’America sente nell’aria un nuovo Sessantotto.
A temerlo è soprattutto il partito democratico, visti i precedenti. Nel Sessantotto «originale» c’era la guerra del Vietnam; oggi c’è Gaza. Alla Columbia University di New York per la prima volta le autorità accademiche hanno chiamato la polizia nel campus, in occasione di proteste filo-palestinesi, e ci sono stati cento arresti. L’università continua a essere perturbata e deve spostare in remoto una parte dei corsi.
Pure Yale e Harvard, atenei di élite, sono in situazioni simili. In altre parti del Paese non è raro che i cortei blocchino il traffico, esasperando i pendolari. La protesta si radicalizza, si rinnovano gli atti di antisemitismo e le aggressioni contro studenti ebrei. La solidarietà con il popolo palestinese, l’indignazione per la tragedia umanitaria in atto nella Striscia, spesso si accompagna ad un aperto sostegno alla violenza di Hamas.
Quando il 13 aprile l’Iran lanciò 350 missili e droni alla volta d’Israele, in un raduno giovanile americano la notizia provocò subito un boato di entusiasmo (s’ignorava in quel momento che il bombardamento non avrebbe quasi fatto vittime). Le manifestazioni politiche penetrano perfino nei luoghi di lavoro, ne ha fatto le spese un’azienda-simbolo come Google: 28 licenziati per aver organizzato un sit-in di protesta in ufficio.
Il paragone con il Sessantotto si focalizza su quel che potrebbe accadere in agosto a Chicago.
La città di Barack Obama sarà la sede della convention democratica che proietterà Joe Biden verso la volata finale della campagna elettorale. Le organizzazioni pro-Hamas si organizzano fin d’ora per stringere d’assedio la convention: accusano Biden di appoggiare un genocidio fornendo aiuti militari a Israele.
Cinquantasei anni fa si tenne un’altra convention democratica a Chicago. Anno terribile: erano stati assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy; il regime comunista del Vietnam del Nord aveva lanciato «l’offensiva del Tet»; diverse città americane erano in preda a disordini razziali.
La convention democratica attirò un mare di manifestanti contro la guerra, per lo più studenti universitari che non l’avrebbero combattuta (avevano il diritto di rinviare la chiamata alle armi per laurearsi; in Vietnam morivano i figli degli operai). La polizia reagì con estrema durezza. Furono giornate di caos, gli americani vedevano nei notiziari serali scene da guerra civile.
Impaurita, l’opinione pubblica moderata si spostò a destra. A novembre di quell’anno vinse la corsa alla Casa Bianca il repubblicano Richard Nixon, sconfiggendo il democratico Hubert Humphrey. Il presidente uscente Lyndon Johnson, anche lui democratico, aveva preferito non ricandidarsi, vista la débâcle del Vietnam e la crescente ostilità alla guerra nel suo partito.
Un’altra analogia con il Sessantotto chiama in causa Pier Paolo Pasolini. Lui compose una celebre poesia, in occasione degli scontri di Valle Giulia a Roma: si schierò con i poliziotti, figli di proletari, contro gli studenti figli di borghesi che li attaccavano. In America oggi «rivive Pasolini». L’epicentro della contestazione si trova in atenei da settantamila dollari di retta annua.
Fra gli studenti fermati dalla polizia, e subito rilasciati, si distinguono figli di celebrity, rampolli di politici e di banchieri. Le star di Hollywood portano solidarietà agli studenti. Chi indossa la divisa invece non ha studiato a Harvard, e probabilmente voterà per Trump anche se è black o figlio di immigrati latinos.
C’è ancora un’altra somiglianza con gli eventi di cinquantasei anni fa. Gli studi sociologici su quella grande rivolta giovanile evidenziarono che la generazione dei «sessantottini» era la prima cresciuta nel benessere. L’esplosione della contestazione era figlia del boom economico che aveva anche creato nuovi bisogni, potere d’acquisto, consumismo e libertà giovanili senza eguali nella storia.
Oggi la Generazione Z, come si definiscono i nati fra il 1997 e il 2012, è beneficiata anch’essa da un benessere senza precedenti. Negli Stati Uniti la metà di questa generazione ha già un lavoro; la disoccupazione giovanile è ai minimi. La Generazione Z americana che è già attiva ha incassato aumenti di stipendi pari al 13% annuo, più di quanto hanno conquistato le altre fasce di età.
È anche — a differenza che nel Sessantotto — ben rappresentata nei luoghi del potere Usa: un’inchiesta del settimanale The Economist ha censito ben seimila chief executive aziendali ventenni e mille politici loro coetanei.
Al tempo stesso la Generazione Z è afflitta da un’epidemia di ansietà, depressione, suicidi, disturbi psichici di varia natura. Alcuni esperti mettono sotto accusa i danni dei social media. Altri puntano il dito su una cultura apocalittica: il catastrofismo sul cambiamento climatico, l’idea che l’umanità intera soffre per colpa di noi occidentali, non favoriscono una visione serena del futuro. Il paradosso è che la Generazione Z già maggioritaria nei Paesi emergenti, dall’India all’Africa, è molto più ottimista della nostra.
Quali riflessi avrà tutto ciò sull’elezione americana di novembre? Chicago sarà un remake del caos che regalò all’America la presidenza Nixon? Il 5 novembre i giovani pro-Hamas voteranno per qualche candidato indipendente e radicale (Robert Kennedy Junior, Cornel West) privando Biden di consensi decisivi? Nella misura in cui andrà a votare, anche questa generazione potrà avere un impatto smisurato sulla storia.