di Francesco Rotondi
Primo maggio
Il sindacato ha una necessità: intercettare i cambiamenti nella società e nel mercato del lavoro per non perdere di vista la realtà. Non si può concordare con la strategia delle consultazioni popolari cavalcate per riportare indietro “le lancette dell’orologio”
La Cgil ha depositato in Cassazione 4 quesiti referendari che vengono presentati come “referendum abrogativi del Jobs Act”. In realtà attengono a questioni molto diverse fra loro e che impattano su materie distinte, non sempre riguardanti il Jobs Act. I quesiti riguardano in primo luogo l’abrogazione del sistema rimediale contro l’illegittimità del licenziamento per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, meglio noto come “Contratto a tutele crescenti”.
Il secondo quesito investe sempre la materia dei licenziamenti chiedendo l’abrogazione del sistema di tutela risarcitoria in caso di illegittimità del licenziamento individuale di cui alla Legge 604/66. Il terzo quesito mira al superamento dell’attuale disciplina del contratto a termine come oggetto di modifica da parte del Governo Meloni.
Il quarto quesito riguarda l’abrogazione dell’articolo 26 comma 4 del D.lgs 81/08 nella parte in cui prevede che “le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.
Nella visione dei proponenti il referendum nascerebbe dall’esigenza di accrescere la stabilità dell’occupazione. Questo approccio è condensato nelle parole del Segretario generale della Cgil: se si vuole “una legislazione del lavoro che contrasti la precarietà, bisogna intervenire sulle forme di lavoro assurde messe in campo in questi anni”.
Anche immaginando di condividere – con tutte le riserve del caso – l’idea che le proposte abrogative tendano a creare effettivamente un lavoro di qualità, e pur condividendo la necessità di un percorso riformatore sulla materia del licenziamento, dopo gli interventi demolitori della Corte Costituzionale, non si può concordare con la strategia dei referendum che prevede di riportare indietro “le lancette dell’orologio”.
Questa operazione “nostalgia” non tiene a mente i mutamenti della società, del mercato del lavoro, la necessità di una nuova sintesi tra flessibilità del lavoro – anche autonomo -, conciliazione dei tempi e welfare. Tale ritardo culturale e di contesto ben emerge dai primi tre quesiti.
Secondo il primo occorrerebbe abrogare il cosiddetto “contratto a tutele crescenti” nella misura in cui questo sarebbe l’apice di un processo, iniziato con la “legge Fornero” del 2012, che ha portato al superamento del tabù della tutela reintegratoria, poi perseguito con maggior rigore dal Governo Renzi.
In realtà il “contratto a tutele crescenti” così come immaginato dal Jobs Act renziano non esiste più da anni per numerosi interventi della Corte Costituzionale che hanno inciso profondamente sulla disciplina originaria, ma anche per le modifiche introdotte dal Decreto Dignità.
Il tutto rende l’iniziativa referendaria prevalentemente propagandistica e mediatica. A ciò occorre, poi, aggiungere la progressiva “ri-espansione” della tutela reintegratoria per i lavoratori a cui si applica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Lo stesso genere di riflessioni può valere per la richiesta di abrogazione dell’articolo 8 della Legge 604/66 per i licenziamenti nelle aziende di piccole dimensioni.
Il tema non è quello di escludere che l’attuale assetto normativo possa essere oggetto di una riforma, anche profonda e radicale, ma di avere consapevolezza che la strada non è quella di ritornare all’assetto rimediale del 1970. In questo ambito, per citare la Corte Costituzionale, bisogna intervenire su un quadro normativo ormai stratificato. Nello stesso solco si colloca la proposta di ritornare a un contratto a termine sotto l’egida di causali “meglio se stringenti” come quelle che avevano caratterizzate il Decreto Dignità di matrice Cgil.
Tuttavia non è dimostrato che rendere più stringenti i limiti di utilizzo generi una maggiore stabilità o un numero più consistente di contratti a tempo indeterminato. È invece facilmente verificabile che le aziende non si siano assunte il rischio di utilizzare causali così stringenti come quelle introdotte con il Decreto Dignità. In questo quadro l’assenza di sensibili incrementi di contratti a tempo indeterminato è indice del fatto che esisteva, in quell’assetto normativo, una quota di opportunità di lavoro non colte.
I referendum impongono una valutazione più profonda riguardo il fatto che il sindacato con questa iniziativa sta, ancora una volta, abdicando al suo ruolo propositivo per “ripescare dall’armadio dei ricordi” vecchie bandiere, anziché porsi rispetto alle questioni con un approccio nuovo, che non coincide necessariamente con una riduzione delle tutele.
Non si può immaginare che un sindacato con la storia della Cgil non abbia un’idea diversa su questioni cruciali se non un colpo di spugna sugli ultimi 10 anni di produzione legislativa senza tenere in conto l’evoluzione del contesto imprenditoriale, sociale e giudiziario che ha condotto al superamento di un determinato assetto di tutele calibrato su di una realtà ormai superata.
Non si tratta della negazione della necessità di discutere e di intervenire su alcuni temi ma del come farlo e del rischio di perdere un interlocutore, storicamente di grande valore, perché arroccato su una posizione anacronistica forse anche per gli interessi della parte che si intende tutelare.
Il tutto a tacer dell’assenza di una riflessione, che invece meriterebbe di essere fatta, circa i nuovi modelli che stanno avanzando nel mercato del lavoro e sui nuovi lavori che caratterizzeranno il futuro.