di David Romoli
Il fardello dell'avvocato
Se dal fronte dell’inflazione e della crescita arrivano buone nuove, su deficit e debito Meloni paga dazio alla sciagurata redistribuzione verso i ricchi (170 miliardi) voluta da Conte
Il Rapporto dell’Ocse sulle prospettive economiche anche dell’Italia è un’istantanea nitida che mette a fuoco meglio di tutte le dichiarazioni propagandistiche, di una parte come dell’altra e dunque di segno opposto ma altrettanto forzate, la situazione in cui si trova il governo Meloni.
Per quanto riguarda le prospettive di crescita il Rapporto non è disastroso per Chigi e per il Mef: prevede una crescita dello 0,7% quest’anno e dell’1,2% nel 2025. Sull’inflazione le previsioni sono più che rosee e del resto la crescita dell’ultimo trimestre in Italia è superiore a quelle di Germania e Francia, e la marcia indietro dell’inflazione procede più rapidamente che nella media della Ue.
Se si aggiunge che i dati sull’occupazione, in particolare quella stabile e non precaria, sono senza dubbio positivi, si dovrebbe concludere che il governo, pur senza esagerare in trionfalismo come fa d’abitudine la premier, è tutto sommato al sicuro.
Il quadro si capovolge quando si arriva al debito e al deficit. “Un aggiustamento di bilancio ampio e duraturo su diversi anni sarà necessario per fronteggiare future tensioni sulla spesa”, dice molto chiaramente l’Ocse.
Il deficit, che ha sforato per il 2023 ogni previsione lievitando fino al 7,4% dovrebbe sì ridursi ma senza rientrare nel paramento del 3% neppure nel 2025. Il debito ha smesso di diminuire, ha ripreso a crescere e sfonderà nel 2025 quota 140 miliardi.
Dunque, oltre a un drastico “aggiustamento dei conti pubblici” sarà necessario “mettere l’incidenza del debito su un percorso più prudente e per allinearsi alle nuove regole”: cioè al nuovo Patto di Stabilità. Conclusione sintetica: le cose non vanno male ma nei prossimi anni saranno necessarie misure di austerità e rigore pesanti.
In concreto: tagli e probabilmente anche tasse. Il problema del governo non sono i conti di oggi ma la prospettiva di ritrovarsi soffocato dalle ristrettezze già domani. In parte il nodo scorsoio dipende proprio da quel nuovo Patto che l’Italia ha accettato obtorto collo e che non poteva non accettare. Ma in parte altrettanto rilevante il danno lo Stato italiano se lo è fatto da solo con quella misura disastrosa che è stato il Superbonus.
Il ministro Giorgetti lo ripete tutti i giorni e con toni apocalittici: “È stato un mostro”. Dati i costumi politici tutti sospettano che si tratti almeno in parte di un alibi. Non è così. I costi del Superbonus sono davvero lievitati oltre ogni più nera previsione e continueranno a farlo.
La misura introdotta dal governo Conte è costata sinora circa 170 miliardi ai quali si dovranno aggiungere le spese dei prossimi due anni, al momento impossibili da valutare. Gli edifici che hanno approfittato del bonus sono appena il 3,5% del totale, va da sé quelli di proprietà della fascia più ricca di popolazione.
I risultati in termini di riduzione delle emissioni sono deludenti a essere molto generosi: in realtà quasi inesistenti. È senza dubbio vero che i bonus edilizi, dal Super alle facciate, sono in buona misura all’origine del rimbalzo eccezionale del 2022 ma anche così la colonna dei passivi supera largamente quella degli attivi e in ogni caso si è trattato di una ripresa essenzialmente drogata, molto vicina alla classica bolla.
Nel complesso una gigantesca operazione di redistribuzione del reddito a favore dei più ricchi. Il problema è che anche il disastro del Superbonus è una fotografia fedele dello stato della politica in Italia.
Draghi e il suo ministro Franco avevano previsto con notevole precisione quali sarebbero stati gli esiti della misura varata dal governo precedente, il Conte 2, anche se forse neppure loro avevano valutato appieno la portata del danno.
Tuttavia non lo bloccarono, come avrebbero voluto fare, limitandosi a vietare la cessione dei crediti, che di per sé portava il disastro a conseguenze anche più estreme. Non andarono oltre perché i 5S, prima forza di maggioranza, non lo avrebbero accettato.
Il Pd, in quel momento interessato solo all’alleanza con Conte considerato “insostituibile” gli dava man forte e in realtà nessun partito era disposto ad affondare una misura in quel momento molto popolare.
I vari interventi sul Superbonus, sinora 3, hanno avuto effetti limitati perché, pur essendosi nel frattempo palesata la situazione reale, i parlamentari anche della maggioranza che tuona (ora, non allora) contro il Superbonus hanno poi permesso una serie di deroghe che hanno limitato l’efficacia degli interventi sul bonus.
La situazione ora è che la sola alternativa alla sospensione anticipata del provvedimento, misura che comprensibilmente nessuno prenderebbe a cuor leggero trattandosi dello Stato che contravviene a un impegno preso, sembra essere spalmare le detrazioni nell’arco di 10 invece che di 4 anni, come propone un emendamento di Forza Italia, e magari portarli addirittura a 15.
Il danno sarebbe attutito, non eliminato. E la tagliola composta dagli effetti a lungo termine del Superbonus da un lato e dal nuovo Patto di stabilità che il governo ha dovuto accettare dall’altro è la sola vera e immensa difficoltà che aspetta dietro l’angolo il governo Meloni.