Se il governo emana un “decreto lavoro” con agevolazioni sulle assunzioni nel momento in cui sono a livelli record,
il sindacato risponde con referendum che guardano al passato. La lettura miope del mercato del lavoro fa perdere di vista i problemi veri.
Dal governo arriva un nuovo “decreto lavoro”
Il primo maggio di quest’anno si celebrerà in un clima di contrapposizione frontale, con pretese ideologiche che non fanno gli interessi dei lavoratori. Da una parte, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per il secondo anno di seguito emana un “decreto lavoro” proprio il primo di maggio, con l’intento esplicito di rivendicare a sé il mondo del lavoro. Dall’altro, Cgil e Uil lanciano i referendum sul lavoro con lo sguardo volto all’indietro.
Il “decreto lavoro” ha un chiaro intento di sfida nei confronti dei sindacati. Contiene, in particolare, una norma sulla deduzione maggiorata dei costi del lavoro al 120 per cento a favore delle imprese che assumono a tempo indeterminato. Il fatto che si tratti di deduzioni e non decontribuzioni è la risposta del governo Meloni alle (fortunate) decontribuzioni per i nuovi assunti che hanno caratterizzato i governi precedenti a partire dal 2015.
Sarebbe il caso di sottolineare l’anacronismo della misura, che viene introdotta in coincidenza con la massima espansione dell’occupazione a tempo indeterminato e diventa dunque un regalo a imprese che comunque assumono. Ma il sindacato non può farlo, perché sembra purtroppo impegnato a dimostrare il contrario, ovvero che il mercato del lavoro e l’occupazione vanno male.
La lettura ideologica del mercato del lavoro
Negli ultimi mesi il numero degli occupati totali e il numero dei dipendenti con contratti a tempo indeterminato hanno raggiunto il valore massimo da quando esistono le statistiche in Italia. Invece di concentrarsi sul tema dei bassi salari – salario minimo legale per i lavoratori a basso reddito e rinnovo possibilmente generoso dei contratti per tutti – ci si accanisce a dimostrare l’indimostrabile, ovvero che le quantità di lavoro sarebbero in verità in calo: l’aumento dell’occupazione sarebbe fasullo perché le ore lavorate sono tuttora inferiori al picco 2007-2008; i dati sull’occupazione sarebbero gonfiati dalla presenza, in crescita, di cassintegrati; il part-time e il lavoro a termine sarebbero in crescita (addirittura 11 milioni i precari).
Non è utile piegare l’analisi economica alla volontà politica di rilanciare un referendum sui contratti a termine e sul Jobs act – i quattro quesiti sono tutti rivolti a battaglie del passato – quando invece i veri nodi di oggi ruotano intorno alla questione salariale.
Si tratta dei salari dei lavoratori marginali – quindi la battaglia per il salario minimo legale; della mancanza di carriere adeguatamente retribuite per i giovani; del rinnovo dei contratti nazionali e della distribuzione dei profitti attraverso la contrattazione decentrata nelle imprese grandi e medie.
Ognuna di queste battaglie richiede uno sforzo eccezionale, che verrebbe vanificato se l’obiettivo venisse spostato verso un problema che non c’è. Infatti, le ore lavorate (quelle da lavoro dipendente, che sarebbero le uniche che contano se il problema fosse davvero la crescita del precariato) sono state nel 2023 ben superiori sia rispetto al 2007-2008 che rispetto al 2019.
È vero che i cassaintegrati per un periodo inferiore a tre mesi sono considerati occupati, ma fortunatamente anche nel 2023 sono diminuiti rispetto al 2022 (per non parlare ovviamente del confronto con il 2020-2021). I dipendenti a tempo indeterminato sono cresciuti molto più di quelli a tempo determinato, tanto che da agosto 2023 l’incidenza dei dipendenti a termine sul totale è scesa sotto al 16 per cento.
Quanto al part-time, ha certamente conosciuto un’esplosione negli ultimi 20 anni, ma tutta la crescita occupazionale post-Covid è dovuta al tempo pieno.
Perché i salari sono bassi
I salari bassi italiani da lavoro dipendente, anche rispetto agli altri principali paesi europei (in particolare la Francia), sono imputabili a tre fenomeni: le poche ore lavorate per il numero alto di part-time; le discontinuità dovute ai lavori a termine (stagionalità legata al turismo; supplenze nelle scuole, per esempio) e – tra i lavoratori full-time – la mancanza di posizioni alte, con salari sopra i 40 mila euro lordi annui: nel 2021 in tale condizione è risultato solo il 9 per cento dei dipendenti.
Il primo fenomeno è frequente nelle piccole e piccolissime imprese e non di rado si accompagna a comportamenti illegali o irregolari. Il secondo attiene alla struttura produttiva italiana e, nel caso del settore pubblico, a irrisolte questioni strutturali di lungo periodo. Il terzo è un tema rilevante soprattutto per le medie e grandi imprese e per la loro capacità di offrire percorsi di carriera e retribuzioni conseguenti.
Sono fenomeni ai poli opposti del mercato del lavoro dipendente, ma tutti concorrono a far sì che la media dei salari sia trainata verso il basso. Se invece guardiamo nel mezzo della distribuzione dei salari, al livello base dei principali contratti per posizioni full-time, non ci sono differenze apprezzabili con la Francia.
Le implicazioni sono chiare, sebbene le soluzioni non siano ovvie: va affrontato il problema del part-time (e soprattutto quello dei part-time minimi con pochissime ore) e va incentivata l’apertura di posizioni da lavoro dipendente sopra i 40 mila euro annui.
Quest’ultimo tema ha a che fare con la capacità di attrarre nuove imprese e rinnovare le gerarchie aziendali (uno studio su dati Inps mostra come i giovani siano sempre più spinti in fondo alle gerarchie aziendali da 20 anni a questa parte). Probabilmente ha anche a che fare con il trattamento fiscale di favore riservato in Italia ai lavoratori autonomi a relativamente alto reddito (fino a 85 mila euro lordi). Ciò fa sì che sopra i 40 mila euro lordi convenga sia all’azienda sia al lavoratore un rapporto di lavoro autonomo invece che dipendente: è un caso unico in Europa.
Procedere per legge è sempre foriero di rischi, basti ricordare che in Francia hanno impedito per legge i contratti part-time inferiori alle 26 ore settimanali, ma uno studio di una ricercatrice francese di Princeton, Pauline Carry, ha valutato che la norma ha penalizzato le donne: invece di due donne part-time, in molti casi si è preferito un uomo full-time.
Si possono fare diverse cose per contrastare o almeno arginare il part-time involontario: dai controlli al salario minimo legale, alle integrazioni del reddito per chi lavora poche ore. Basta volerlo e non sbagliare analisi e obiettivi, accecati dall’ideologia.