di Carlo Fusi
L’arresto di Giovanni Toti ha messo in sordina la polemica sulla decisione della leader del Pd Elly Schlein di firmare il referendum per l’abolizione del Jobs Act
L’ennesimo arresto eccellente – Giovanni Toti, presidente della Liguria – e la conseguente enfasi mediatica sullo scontro giustizia-politica (con quest’ultima che mai riesce a uscire dal doppiopesismo o dalla sindrome manettara) ha momentaneamente messo in sordina la polemica riguardo la decisione della leader del Pd Elly Schlein di firmare il referendum promosso dalla Cgil sull’abolizione del Jobs Act.
Legge a suo tempo votata, perfino con qualche entusiasmo, dallo stesso Pd a conduzione renziana. Il segretario è cambiato, molti parlamentari che allora sottoscrissero la norma no; ma non è questa, seppur grave, né la sola né la più grave delle contraddizioni.
Molti osservatori hanno sentenziato che con quella firma il Pd ha rinnegato il riformismo come pratica politica. È così? La prima cosa da dire è che risulta insensato lo stupore per la scelta. Elly Schlein sta dove sta perché il riformismo – qualunque cosa s’intenda con questo termine – ha subìto nel Pd una sconfitta strutturale. La sua vittoria è avvenuta all’insegna della «radicalità» (Franceschini dixit) che avrebbe da quel momento dovuto contraddistinguere la linea politica del Nazareno.
Nessuno stupore anche per il sussiegoso silenzio dell’ala riformista interna al partito. Casomai suscita tenerezza l’idea che una bandiera così identificativa della tradizione del socialismo non solo italiano possa sventolare all’ombra del profilo dell’ex ministro Lorenzo Guerini, le cui radici e tradizioni sono di altro genere.
Il punto è però che il riformismo – un ideale impossibile da sotterrare – non è proprietà privata e se viene dismesso da una parte è logico che ce ne sia un’altra che se ne impossessi. È del tutto legittimo che il Pd voglia costruire la sua identità sotto l’usbergo della radicalità; assai meno lo è immaginare che la propria scelta non produca conseguenze.
Più chiaramente: se la sinistra s’invaghisce della radicalità, la prateria riformista viene occupata dalla destra. Le cui riforme sono note: premierato con firma FdI; autonomia differenziata emblema della Lega; separazione delle carriere dei magistrati voluta da Forza Italia.
Di conseguenza, di fronte a uno scenario siffatto, ci sono due possibilità per il Pd: o accettare la sfida sul crinale riformismo/radicalismo e vedere cosa premiano gli italiani; oppure da posizioni di minoranza provare a limitare i danni che l’armatura politica indossata comporta.
In questa direzione va il tentativo del drappello di costituzionalisti ed esponenti politici bipartisan – da Stefano Ceccanti a Gaetano Quagliariello, passando per Enrico Morando e Peppino Calderisi – che cercano di rendere il più possibile potabile l’elezione diretta del presidente del Consiglio con emendamenti volti a salvaguardare l’impianto parlamentare della Costituzione, potendo contare nel centrodestra sul lavoro fatto da Marcello Pera.
Morando spiega che se la maggioranza vuole il premierato si tratta di una ‘vittoria’ della sinistra che da sempre lo propone. Il Pd, al contrario, spara a zero sull’impianto riformista del centrodestra e i Cinquestelle non sono da meno. Ma se impugni la radicalità come puoi sorprenderti che gli avversari s’impossessino del riformismo?
Non solo. La scelta di Schlein produce conseguenze anche fuori dai nostri confini. Com’è noto, tra meno di un mese si vota per il rinnovo del Parlamento europeo: a suo tempo lungo fu il travaglio del Pd prima di decidere di iscriversi al Pse. Fu soprattutto Matteo Renzi a battersi per quell’opzione.
Ebbene, adesso il Pd diventa una forza ‘estrema’ nel contenitore socialista continentale, mentre chi ha battagliato per la scelta di allora è fuori dal partito e milita in un aggregato centrista ‘macroniano’.
L’elenco delle contraddizioni è corposo. Resta da capire quanto apprezzabile da parte degli elettori.