di Paolo Mieli
Un bel ceffone alla Nato.
Ma anche, sia pure di striscio, all’Europa. Questo è stato il senso del viaggio che ha portato il Presidente cinese Xi Jinping a Parigi, Belgrado e adesso a Budapest. La parte meno prevedibile è stata quella che si è svolta al cospetto di Emmanuel Macron (e di un’innervosita Ursula von der Leyen). Ci si poteva aspettare che il leader cinese dopo essersi intrattenuto con il suo omologo francese avrebbe trovato il modo di ricambiare la gentilezza che questi gli aveva fatto l’anno scorso.
Nell’aprile del 2023, al ritorno da una visita a Pechino, Macron aveva giurato che mai «noi europei» saremmo caduti nella «trappola» di lasciarci «invischiare» in «crisi che non sono le nostre». Crisi in cui finiremmo per diventare «vassalli». Parole in esplicito contrasto con la politica statunitense in difesa di Taiwan. Pronunciate proprio mentre Pechino dava notizia di esercitazioni militari intorno all’isola di cui rivendica la proprietà.
Stavolta Macron aveva appena rilasciato una bellicosa intervista all’ Economist dove prefigurava, nel caso di sfondamento russo in Ucraina, un intervento di militari occidentali in soccorso di Kiev. Intervista che, detto per inciso, ha provocato una precipitosa e goffa presa di distanze da parte dei nostri partiti di governo.
Reazione, dai toni grottescamente pacifisti, capeggiata da un Matteo Salvini, per l’occasione assai poco contrastato dagli alleati del centrodestra. Ma torniamo a Xi Jinping. Gli sarebbe costato pochissimo trovare qualche espressione — appena appena meno generica di quella contenuta nel comunicato finale — per augurarsi che in Ucraina si giunga in tempi rapidi ad un accordo di pace con soddisfazione di entrambi i contendenti (aggressore e aggredito). Invece, niente. Macron, però, non se l’è presa.
E, per ricambiare un tè offertogli un anno fa a Canton, ha trascinato Xi in un villaggio nei Pirenei molto caro a sua nonna, Manette. Dove gli ha dato l’occasione davvero unica di assistere, purtroppo sotto la pioggia, a un tipico ballo locale. Anche qui, neanche una parola d’auspicio a che in Ucraina, dopo due anni e tre mesi di bombardamenti e stragi, si torni a vivere nel clima di La Mongie (così si chiama il paesino nei pressi del celeberrimo colle del Tourmalet). Il più volte evocato «mediatore cinese» si è ben guardato dal pronunciarle. E questo vorrà pur dire qualcosa.
Qualcosa che si è capita meglio nella seconda tappa del viaggio. A Belgrado il successore di Hu Jintao ha partecipato alla cerimonia commemorativa per i venticinque anni dai bombardamenti Nato sulla Serbia di Milosevic. Bombardamenti in cui fu colpita (per sbaglio, con tanto di immediate scuse) l’ambasciata di Pechino provocando la morte di tre giornalisti cinesi.
L’errore ci fu ed è legittimo che alcuni storici si pongano ancor oggi la domanda se si trattò di sfortuna o ci fu un qualche calcolo. Ma il leader cinese ha sostenuto che, all’epoca, la sede diplomatica fu colpita «deliberatamente» e ha pronunciato nei confronti dell’Alleanza atlantica minacce neanche tanto velate.
Terza tappa, oggi e domani, nell’Ungheria di Viktor Orbán che fa parte dell’Alleanza di cui si è detto, oltreché dell’Unione europea. Qui si è fatto precedere da un editoriale su Magyar Nemzet (così come aveva fatto in Francia e in Serbia con articoli di fondo per Le Figaro e Politika ) in cui ha elogiato l’«indipendenza della politica estera ungherese» di fronte alle «pressioni» delle potenze straniere.
Lasciando intendere che i favori economici destinati all’Ungheria — così come quelli per la Francia e per la Serbia — possano essere intesi come una sorta di compensazione per le volte in cui questi Paesi, ognuno a modo suo, si sono messi o si metteranno di traverso a decisioni concordate con gli Stati Uniti e con il resto dell’Europa. Anche se qui, come è evidente, il discorso riguarda principalmente due Paesi su tre (Francia e Ungheria).
Al termine di queste «visite», Xi Jinping ha annunciato che incontrerà Putin e con lui, si presume, tirerà le somme del fruttuoso viaggio. L’Europa queste somme le può trarre già ora. Per la Cina la Ue è insignificante sotto il profilo strategico; può prendere peso, agli occhi di Pechino, solo e se decide di intralciare in qualche modo gli Stati Uniti (e favorire l’ascesa del rivale di Trump); nei confronti di chi si mette su questa strada il partner asiatico è disposto a spendere e far fare affari.
Affari del tipo di quelli fatti con la Russia in materia d’energia nei primi vent’anni del secolo in corso. E possiamo immaginare che, quando Xi riferirà a Putin i risultati della sua missione europea, il leader russo, pur costretto per l’ennesima volta ad uno sgradevole atto di sottomissione, uscirà dal colloquio dicendosi che la sua politica di alleanze regge meglio di quella dei suoi nemici. E che il vero Macron non è quello manifestatosi sull’ Economist ma l’uomo che, al momento dell’invasione dell’Ucraina, sostenne che il problema era quello di «non umiliare la Russia».
E, un anno dopo, disse che, nel caso l’aggressore fosse costretto a rientrare nei propri confini, si poteva mettere nel conto di «sconfiggere» la Russia, ma «non totalmente». «Come vorrebbero alcuni», insinuò, senza offrire elementi — come da manuale di un grande uomo politico — per comprendere a chi, di preciso, si riferisse. Alcuni pensarono agli Stati Uniti. Altri ai Paesi baltici.