di FRANCESCO GIUBILEO
Sono pochi i disoccupati che partecipano alle
attività formative previste dal programma Gol.
Perché non è semplice convincere adulti con altre priorità a parteciparvi. La soluzione è studiare politiche attive disegnate sulle caratteristiche degli utenti.
Obiettivi e risultati del programma Gol
Acquisire determinate competenze potrebbe permettere a molte persone di migliorare le loro chance occupazionali o la loro occupazione, e uscire così da lavori non-qualificati di breve durata.
Per questo il programma Gol investe tantissime risorse nelle attività formative, proprio per ridurre lo squilibrio di competenze. Tuttavia, sul milione di utenti presi in carico tra metà 2022 e fine 2023, che potevano partecipare ad attività formativa (aderenti ai Cluster 2, 3 e 4), solo poco più di 270 mila partecipano o hanno concluso un percorso.
A ciò si aggiunge che la netta maggioranza dei discenti – circa il 60 per cento (con regioni come la Campania che raggiungono il 100 per cento) – è stato coinvolto solo in percorsi di rafforzamento delle competenze digitali di base, un processo di alfabetizzazione sicuramente utile, ma difficilmente possiamo ritenerlo rilevante per migliorare le loro opportunità di occupazione.
Alla fine, facendo una semplice approssimazione, stiamo parlando di poco più 100 mila utenti coinvolti in attività formative. In altri termini, in due anni vi ha partecipato un decimo dell’intera platea che si è iscritta al programma Gol.
La bassa partecipazione può essere imputabile solo in parte a problemi burocratici che provocano un ritardo nella realizzazione dei percorsi, come avviene in Sicilia, Molise e Puglia, che complessivamente risultano aver avviato in percorsi di formazione solo 27 persone dall’inizio del programma a oggi. Nella maggior parte delle regioni le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono a disposizione, i modelli sono operativi e a regime (ad esempio, in Emilia Romagna, Veneto, Toscana e altre ancora), tanto da aver a disposizione centinaia di milioni di euro da spendere in attività formative.
Analoghe considerazioni possiamo farle in termini di esiti occupazionali: tra i presi in carico nei Cluster 2,3,4 da almeno sei mesi (640 mila), solo il 20 per cento lavora. Quindi non si può neanche ipotizzare che la maggior parte degli utenti non partecipi alla formazione perché occupata.
In teoria, il dato dei partecipanti potrebbe essere addirittura più basso, perché dobbiamo tener conto del peso della condizionalità nella scelta di partecipare o meno alle attività formative: molti beneficiari di ammortizzatori sociali hanno partecipato ai corsi solo perché obbligati. La partecipazione inibisce occupazioni nel sommerso dei beneficiari, ma coinvolge persone a volte non adeguatamente motivate.
Allora, perché la netta maggioranza degli utenti di Gol non partecipa alla formazione, nonostante siano disoccupati e il sistema formativo funzioni in buona parte del paese?
Cosa ci insegna la Danimarca
A comprendere meglio perché gli adulti non-qualificati siano poco propensi a partecipare ai percorsi di istruzione, può aiutarci una serie di ricerche su base decennali realizzate da Eva (Ente di valutazione nazionale della Danimarca). Nel lontano 2008 Eva aveva rilevato, su un campione rappresentativo, che una persona su cinque di età compresa tra i 25 e 55 anni esprimeva il desiderio di iniziare una formazione professionale; in numeri reali, il dato corrispondeva a circa 50 mila persone. Nel 2012, ovvero quattro anni dopo, solo 8.500 lavoratori non qualificati erano diventati lavoratori qualificati attraverso un percorso formativo.
Nel 2014 è stata condotta una seconda indagine, intervistando mille lavoratori non qualificati di età compresa tra 25 e 54 anni, ed è emerso che il 20 per cento di loro aveva il desiderio di iniziare una formazione professionale e ben il 60 per cento del campione aveva valutato che un percorso di istruzione professionale li avrebbe avvantaggiati nel mercato del lavoro.
Ancora una volta, a distanza di quattro anni, i ricercatori dell’Eva hanno verificato quanto questa percentuale venisse corroborata dai dati reali: purtroppo solo il 5 per cento degli oltre 365 mila adulti di età compresa tra 25 e 54 anni che nel 2014 erano non qualificati ha iniziato la formazione professionale nel periodo 2015-2019.
La ricerca danese conferma quanto sia difficile per una persona non qualificata, anche se ben informata, partecipare a percorsi professionali. E perché è un compito assai arduo per tutti gli operatori delle politiche attive del lavoro convincere persone con un basso titolo di studio e probabilmente lontane da molto tempo dai banchi di scuola a seguire corsi di 40 ore o addirittura di 600 ore, quando la loro priorità è quella di trovare immediatamente un lavoro.
Le soluzioni in campo
Nel tentativo di perseguire e raggiungere, entro dicembre 2025, gli obiettivi previsti dal Pnrr (in particolare il Target 2, quello che prevede 800 mila soggetti coinvolti in formazione), il ministero del Lavoro ha modificato il programma Gol, permettendo anche ai beneficiari del Cluster 1 di poter partecipare alle attività formative. La modifica appare condivisibile in quanto aumenta la platea (di quasi un milione) ed è auspicabile che possa crescere di conseguenza il numero di partecipanti alla formazione professionale.
Tuttavia, i beneficiari del programma profilati nel Cluster 1, sono tipicamente definiti ready to goal (pronti) per il mercato del lavoro e quindi sarà ancora più difficile che siano interessanti a “investire” il loro tempo in formazione. Date queste condizioni, risulta problematico riuscire a raggiungere alcuni obiettivi del Pnrr, perché in poco più di un anno si dovrebbe triplicare il numero dei soggetti avviati a un percorso formativo.
Quali soluzioni si possono attuare, per incentivare la formazione professionale? Danimarca, Germania e Svezia adottano programmi di “apprendistato per adulti”, in modo che ai partecipanti sia offerta non solo formazione, ma una concreta possibilità di inserimento e crescita professionale. In questi paesi, lo strumento (tipicamente un apprendistato di primo livello) è accompagnato da generosi incentivi economici per le imprese che assumono apprendisti.
In Italia, una prima sperimentazione era stata predisposta a favore dei cassintegrati, ma si tratta ancora oggi di una misura che non è mai stata utilizzata, probabilmente perché vi è un pregiudizio da parte delle imprese, come nei disoccupati adulti, che si tratti di una misura tipicamente dedicata ai giovani. In Germania, proprio per disincentivare gli abbandoni o aumentare la partecipazione, attraverso il progetto Jobstarter Plus, hanno trasformato gli stessi apprendisti e le imprese coinvolte nelle prime sperimentazioni in “ambasciatori”, in modo che possano far conoscere lo strumento, all’interno di eventuali fiere del lavoro o eventi speciali, a potenziali nuovi apprendisti o aziende utilizzatrici.
Anche in Italia, l’unico modo perché lo strumento possa funzionare è quello di realizzare una prima sperimentazione, aperta a tutti e non solo ai cassintegrati, e a “cascata” diffondere e far conoscere l’esperienza in modo da ampliarne la platea.
In realtà, la vera questione è che le politiche attive sono uno strumento in continua evoluzione e in ogni periodo richiedono strumenti e interventi diversi. Se si guardano le caratteristiche degli utenti più che quelle della formazione (che, nonostante le criticità, riveste per alcuni soggetti un ruolo fondamentale per la loro ricollocazione nel mercato del lavoro), le priorità sembrano altre: in particolare, per l’utenza straniera è necessario garantire un processo di certificazione delle competenze che possa valorizzare i titoli di studio acquisiti all’estero.
Mentre per i cittadini del Mezzogiorno, più che politiche attive bisognerebbe parlare di politiche abitative: il loro principale scoglio non sono le competenze, quanto piuttosto il costo della vita nel Nord Italia.