di Aldo Torchiaro
Il giuslavorista puntualizza: con il governo Renzi e le misure sul lavoro ci fu un indubbio aumento degli occupati.
“Il decreto attuativo prevedeva l’introduzione di una paga base, ma i sindacati…”
Sul Jobs Act la triade Cgil-Conte-Schlein suona i tamburi di guerra.
Tamburelli, per il momento, ma a loro piace così: raccolgono firme senza troppa convinzione per proporre un referendum di iniziativa popolare, con il non detto di non arrivare davvero a nessun quesito. Anche perché non precisano cosa vogliono riformare, né tantomeno come. Una storia sin troppo nota: tanta propaganda facile da mandare giù nel tentativo di richiamare attenzione alle Europee, ma neanche l’ombra di una ipotesi di riforma del lavoro. Come è peraltro assodato dopo tre anni di immobilismo dei due governi Conte, rimpianti dai “Nuovi Dem” di Elly Schlein. Un Pd molto diverso da quello del quale il giuslavorista Pietro Ichino è stato dirigente e parlamentare. Gli abbiamo chiesto cosa pensa della mobilitazione contro il Jobs Act, la grande riforma del lavoro voluta dal governo Renzi.
Professor Ichino, la Cgil promuove un referendum contro il Jobs Act e il Pd di Elly Schlein sembra aderire all’iniziativa. Lei cosa ne pensa?
«I decreti delegati che hanno dato attuazione al Jobs Act sono otto e hanno investito tutto l’arco del diritto del lavoro. La Cgil farebbe bene a dire chiaramente quali parti propone di abrogare».
Possiamo ipotizzare che vogliano abrogare il d.lgs. n. 23/2015, quello sui licenziamenti.
«Tornare al vecchio regime della job property nelle aziende medio-grandi sarebbe una sciocchezza. In primo luogo perché la riforma risponde all’esigenza di armonizzare il nostro diritto del lavoro con quello di tutti gli altri Paesi della UE: tornare a un regime di job property nel settore privato significherebbe ripristinare una anomalia italiana dannosa».
E in secondo luogo?
«Perché quella riforma non ha portato affatto la “precarizzazione del lavoro” di cui parla il segretario della Cgil: la probabilità di essere licenziati è rimasta sostanzialmente invariata. Mentre il vero risultato della riforma è stato il dimezzamento del contenzioso giudiziale su questa materia: i soli che ci hanno perso veramente sono gli avvocati».
Si è detto anche che è una riforma che ha prodotto lavoro, un milione di occupati in più. È così?
«Nel quinquennio tra il 2013 e il 2018 si è registrato un forte aumento del numero degli occupati. Però la scienza economica insegna che la concomitanza temporale non basta per affermare il nesso causale tra la norma legislativa e il fenomeno osservato».
Sta di fatto che le leggi successive e la Corte costituzionale sono già intervenute più volte a correggere la riforma dei licenziamenti.
«Nel 2019 è stato aumentato il limite massimo dell’indennizzo per il licenziamento ingiustificato da 24 a 36 mensilità; inoltre la Consulta ha stabilito che il giudice deve poter stabilire liberamente l’indennizzo tra il minimo e il massimo. Ma nel complesso questi interventi non hanno scalfito il nucleo essenziale della riforma, cioè il passaggio da un regime fondato sul principio della job property a un regime fondato sulla sanzione indennitaria».
Landini dice che così si lede un diritto fondamentale della persona del lavoratore.
«Se la job property fosse un diritto fondamentale della persona, non si spiegherebbe come nel vecchio regime abbia potuto restarne esclusa metà dei lavoratori dipendenti. E non si spiegherebbe perché quel preteso diritto fondamentale sia ignorato in tutti gli altri Paesi dell’Occidente sviluppato. Chi vuole abrogare questa riforma dovrebbe, piuttosto, spiegare come si giustifichi un regime come il nostro ora superato, che garantiva l’inamovibilità alla metà privilegiata dei dipendenti privati, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno sull’altra metà».
Poi c’è il discorso sui contratti a tempo determinato: si dice che ora due terzi dei nuovi posti di lavoro sono a termine.
«Non si deve confondere il dato di flusso col dato di stock: sul totale dei dipendenti occupati, quelli a termine oggi non sono più di un sesto: una percentuale in linea con la media della UE, che comunque è andata lentamente crescendo dappertutto nell’ultimo quarto di secolo».
Il mondo del lavoro cambia. Velocemente. Il sindacato no: è un museo del lavoro, la fotografia in bianco e nero di come era una volta. Perché la Cgil in particolare rimane ancorata al passato?
«Non generalizzerei: il movimento sindacale non è solo la Cgil. E anche nella Cgil sono in molti a non pensarla come il suo segretario generale».
Il Jobs Act aveva punti di forza e punti da rafforzare. Non pensa che oggi se ne parlerebbe in modo diverso se esso fosse stato realizzato compiutamente in ogni sua parte?
«Concordo. I punti principali sui quali l’attuazione è mancata sono tre. In primo luogo l’ANPAL-Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, che è stata massacrata sotto la presidenza di Domenico Parisi. E le politiche attive hanno continuato a latitare. Poi l’anagrafe della formazione professionale e il suo incrocio con i dati sui flussi occupazionali, previsto dagli articoli da 13 a 16 del decreto n. 150 del 2015: anche questo è rimasto lettera morta, col risultato che continuiamo a finanziare formazione professionale di cui non conosciamo la qualità e l’efficacia».
Il terzo punto?
«Il salario minimo: la legge-delega prevedeva la sua istituzione per tutti i rapporti di lavoro non coperti da contratto collettivo nazionale. Se la delega non è stata attuata, è stato anche per l’opposizione della Cgil, che invece oggi rivendica la legge sul salario minimo».