Dall’equità di genere dimenticata agli enormi ritardi strutturali: tutti i problemi del PNRR (valigiablu.it)

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Economia

La più grande criticità che il PNRR – il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui verranno spesi i finanziamenti europei del bando Next Generation EU – ha dovuto scontare sin da quando è stato varato è la scadenza ravvicinata. Per realizzare tutti i progetti finanziati, infatti, c’è tempo solo fino al 2026. Una tempistica stretta, vista l’entità delle risorse da spendere e la complessità degli obiettivi. Oggi, a poco più di due anni dal traguardo, a che punto siamo?

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha rivendicato l’operato del governo sul PNRR, che “fortunatamente non sta andando come qualcuno temeva o forse sperava”. Ma, a guardare i dati, le cose stanno in modo ben diverso. Dopo mesi di attesa, a fine aprile il governo ha finalmente pubblicato le statistiche aggiornate sullo stato di avanzamento del piano. Il risultato è abbastanza preoccupante: circa un progetto su tre è ancora in fase di aggiudicazione o di stipula dei contratti. Perché questi ritardi?

PNRR: una storia di ritardi strutturali

Storicamente l’Italia ha avuto problemi nella gestione dei fondi europei, che sono fondi ingenti, con scadenze ravvicinate, e una rendicontazione complessa da produrre.

Con il PNRR, a questa storica criticità se ne sono aggiunte altre. In particolare, la difficoltà a riuscire a reperire personale tecnico qualificato che gestisca i progetti , soprattutto a livello locale: i contratti sono a termine e gli stipendi non sono attrattivi. Ad esempio, l’Emilia-Romagna lamenta carenze di forza lavoro per mettere a terra i progetti, e a Roma i dipendenti del comune preferiscono passare ai ministeri per le migliori condizioni economiche. In più, a dicembre 2023 il Governo ha deciso di accentrare la gestione PNRR ed eliminare l’Agenzia della coesione territoriale, che finora ha avuto un ruolo di rilievo nell’affiancare le Regioni sulla spesa dei fondi europei: questo potrebbe comportare ulteriori ritardi.

Poi ci sono criticità di natura tecnica: la piattaforma informatica Regis della Ragioneria generale dello Stato non ha funzionato come avrebbe dovuto, e a lungo non ha messo a disposizione i manuali operativi e i codici di progetto, senza i quali era difficile avanzare con i progetti.

Con la revisione del PNRR, definitivamente approvata dalle istituzioni europee a novembre 2023, una serie di misure sono state stralciate. La modifica ha coinvolto 145 dei 349 obiettivi, ma soprattutto ha spostato progetti per 15,89 miliardi di euro, che di fatto escono dal PNRR e devono essere finanziati con altri fondi. La questione è: da dove prendiamo quelle risorse? A marzo il governo ha approvato il decreto legge 19/2024, che contiene indicazioni per l’attuazione del Pnrr, e fornisce anche indicazioni sulle risorse per completare i progetti rientranti in misure che sono state del tutto o in parte stralciate dal piano. Il decreto prevede un incremento delle previsioni di spesa di circa 15,5 miliardi: di questi, però, solo 3,4 miliardi vengono impiegati per le misure escluse dal PNRR.

La norma non dà invece alcuna indicazione su diverse misure che sono state definanziate. Tra queste ci sono quelle relative agli interventi per la resilienza, la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei comuni, le misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico, e quelle per la promozione di impianti innovativi. Di tutto questo, nel decreto non c’è traccia. E poi ci sono le misure per gli interventi di rigenerazione urbana, il cui valore originario era di circa 3,3 miliardi di euro, ridotti a 1,5 miliardi, e quelle per la tutela e valorizzazione del verde urbano, il cui importo complessivo è passato da 330 a 210 milioni. Come spiega la fondazione Openpolis, che sta realizzando un monitoraggio civico sul PNRR attraverso gli open data e che ha istituito il portale aperto OpenPNRR, il decreto per molte misure non chiarisce “quali progetti saranno realizzati con i fondi Pnrr, quali con altre fonti di finanziamento, e quali invece saranno definitivamente accantonati”.

Un PNRR che rischia di aumentare le disuguaglianze

In generale, da quando è stato approvato il PNRR, è sempre stato molto difficile monitorare e fare analisi sullo stato di avanzamento dei progetti, perché manca un ingrediente fondamentale: la trasparenza. Tanti dati sono assenti, altri sono lacunosi. In particolare, oggi la mancanza più rilevante riguarda i dati sulla spesa effettuata per i progetti. “Si tratta o di una scelta politica di non trasparenza, oppure di un problema di qualità dei dati”, denuncia la fondazione Openpolis. “Qualunque sia il motivo, è inaccettabile che tali informazioni non siano ancora nella disponibilità di cittadini, analisti e degli stessi decisori, in primis il parlamento”.

In tutto sono state quattro le richiesta di accesso agli atti (Foia) con specifico riferimento al PNRR portate avanti da fondazione Openpolis con il sostegno dell’Osservatorio civico PNRR, delle centinaia di organizzazioni aderenti alla campagna #DatiBeneComune e con l’assistenza dello studio legale E-Lex.

Tra queste c’è anche l’associazione Period Think Tank, che promuove l’equità di genere attraverso un approccio femminista ai dati e che si occupa di monitorare l’impatto di genere del PNRR. Il piano dovrebbe infatti intervenire sulle condizioni socio-economiche di donne e giovani, puntando innanzitutto a un aumento del loro tasso di occupazione. Per questo motivo dal 2021 è previsto un vincolo di assunzione per chi vince gare d’appalto finanziate dal piano, con una quota occupazionale del 30% riservata a donne, giovani sotto i 36 anni e persone con disabilità.

Valigia Blu ha già analizzato i primi dati che erano stati resi disponibili sul rispetto di questo vincolo, rilevando che il 68% dei bandi aperti fino ad allora non aveva previsto quote di assunzioni riservate a donne e giovani. A distanza di un anno e con molti più bandi e gare aperte, la situazione purtroppo è rimasta pressoché invariata. Ancora oggi il 65% dei bandi del PNRR non prevede meccanismi di tutela per favorire l’inclusione di donne, giovani e persone con disabilità, mentre solo il 6% presenta misure premiali di genere.

“Il PNRR avrebbe dovuto favorire il riequilibrio del tasso di occupazione delle donne in settori ancora a prevalenza maschile, facendo rispettare la previsione di meccanismi di premialità e di condizionalità per l’utilizzo dei fondi, il cosiddetto gender procurement”, spiega Giulia Sudano, presidente di Period Think Tank. È l’articolo 47 del decreto legge 77/2021 ad aver disposto le quote di assunzione su giovani, donne e persone con disabilità, con l’obietto di favorire l’inclusione lavorativa di queste persone nell’ambito dei contratti pubblici finanziati con le risorse del PNRR. “Parallelamente, però, le linee guida di attuazione del decreto hanno aperto la strada a numerose possibilità di deroga. Siamo di fronte all’ennesima occasione perduta per rendere l’Italia un paese più equo”.

L’equità di genere, questa sconosciuta

Secondo la ricerca di Period Think Tank, il 65,5% dei bandi è andato in deroga, o parziale o totale, rispetto ai meccanismi di tutela per favorire l’inclusione di donne e giovani e persone con disabilità. Nello specifico, nel 2,7% dei casi si tratta di una deroga parziale: viene derogata o la quota femminile o quota giovanile o entrambe. Nel restante 62,8% dei casi si parla di una deroga totale, ovvero i bandi non percepiscono affatto la normativa sul gender procurement. La regione che ha la quota maggiore di deroghe sul totale dei bandi di gara è il Molise (79%), quella con la quota più bassa è il Trentino-Alto Adige (36%).

Se si considerano le deroghe totali, la missione con la maggior percentuale di bandi derogati totalmente è la missione 1 (digitalizzazione e innovazione) con il 69,4%, seguita a ruota dalla missione 2 (rivoluzione verde e transizione ecologica) con il 69,2%. Per quanto riguarda le deroghe parziali, vediamo invece un comportamento inverso: la missione con la percentuale maggiore di bandi derogati parzialmente (12,5%) è la missione 6 (salute), seguita dalla missione 5 (inclusione e coesione) con il 6,4%. In ultimo posto vediamo la missione 1 con solo lo 0,3%.

È interessante infine capire quali sono le motivazioni delle deroghe. Per quanto riguarda le deroghe totali, il motivo principale (48,7%) è l’importo ridotto del contratto. E infatti la maggior parte dei bandi in deroga totale hanno una classe di importo bassa (69%). Analizzando invece le deroghe parziali, il 63% dei bandi è stato derogato per scarsa occupazione femminile nel settore, seguito dal tipo di mercato di riferimento (22%).

I nuovi dati forniscono anche informazioni su quali misure premiali sono applicate e dove. In totale, solo il 6% dei bandi gara analizzati prevede misure premiali per genere, per età, per eventuale disabilità. In particolare, le premialità di genere sono presenti solo nel 3,3% del totale dei bandi analizzati. “Il PNRR sta tradendo l’impegno originario di garantire la parità di genere come priorità trasversale del piano”, afferma Sudano. Per richiedere dati che permettano di monitorare l’attuazione del piano, in particolare per quanto concerne i divari di genere, generazionali e territoriali, Period Think Tank ha indetto una giornata di confronto il 17 maggio a Roma, presso la Casa Internazionale delle Donne. I tavoli di lavoro saranno tre: benessere abitativo e accesso alla casa, accesso a un’assistenza sanitaria di qualità, misure per la riduzione del lavoro di cura delle donne. “Dobbiamo continuare a mobilitarci per richiedere a Governo e Parlamento in modo tempestivo tutti i dati e gli indicatori necessari per monitorare l’attuazione del PNRR e il suo reale impatto, dal momento che ci stiamo anche indebitando come paese per realizzarlo”, conclude Sudano.

La parità di genere in Italia, un obiettivo ancora lontano

Il problema della mancata equità di genere nel mondo del lavoro è sempre più urgente: in Italia, una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre, e il 73% delle persone che si dimettono dopo aver avuto un figlio è donna. Sono alcuni dei dati contenuti nel rapporto Le Equilibriste”,  pubblicato lo scorso 8 maggio da Save The Children. Nel frattempo, è ancora in calo il numero medio di figli per donna, mentre il nostro si conferma come uno dei paesi europei con la più alta età media delle donne al parto (32,5 anni).

Il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 anni è del 52,5% (dato 2023), contro una media europea del 65,8%. Ben 13 punti percentuali in meno. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese è di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alla differenza media nell’Ue di 9,4 punti percentuali, e seconda solo alla Grecia (18 punti percentuali). Ci sono inoltre marcate disparità territoriali: nelle regioni del sud, l’occupazione si ferma al 48,9% per le donne senza figli, scendendo al 42% in presenza di figli minori e arrivando al 40% per le donne con due o più figli.

Il problema del part-time involontario

Il problema non è solo di mancata occupazione, ma anche di occupazione a tempo ridotto. Nel nostro paese, infatti, il lavoro part-time sembra essere prerogativa delle donne: solo il 6,6% degli uomini che lavora lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, una su tre. Circa la metà delle donne che lavorano part-time subisce poi il fenomeno del cosiddetto part-time involontario, che riguarda chi ha cercato un impiego a tempo pieno, ma accetta per necessità un lavoro a tempo parziale.

“È stata una scelta obbligatoria. Nel nostro ambiente in molte ci ritroviamo a lavorare dopo essere state ferme per 10-15 anni, per aver cresciuto i figli. Avevo chiesto un full-time, ma non mi è stato dato. ‘Sei fortunata ad avere 4 ore’, mi dicono. Due ore di lavoro al giorno, inclusa la pausa pranzo, sono una presa in giro”. È il racconto di T., una delle testimonianze contenute nel report del Forum Disuguaglianze e Diversità Da conciliazione a costrizione, presentato il 6 maggio al Senato. L’indagine mostra che il part-time involontario pesa per il 16,5% sul totale delle donne occupate, contro il 5,6% degli uomini occupati. “La gravidanza è stata sicuramente l’evento principale che ha inciso sulle mie scelte lavorative”, racconta M., un’altra donna che subisce il part-time involontario. “In quel momento avevo un compagno e anche delle diverse esigenze economiche, per cui sono state fatte delle scelte familiari. Ho fatto più una scelta da mamma piuttosto che una scelta da lavoratrice”.

Tra le persone impiegate in professioni non qualificate si registra la differenza maggiore: il 38,3% per le donne contro il 14,2% gli uomini. Il part-time involontario, inoltre, è più frequente tra le giovani donne: si parla del 21% tra i 15 e i 34 anni, rispetto al 14% delle donne di 55 anni e oltre. “Ho 28 anni e lavoro da quando ne ho 19”, racconta S. “Da sei anni lavoro in part-time e faccio due lavori. Volevo fare l’università ma avevo una situazione familiare un po’ critica quindi ho iniziato subito a lavorare per dare una mano a casa. All’inizio facevo sostituzioni malattia e stavo a 6-7 ore, con la promessa di essere assunta. Ho tenuto duro e mi hanno assunto a 17 ore e mezzo, facendomi un contratto fisso, con la promessa che l’orario sarebbe aumentato, cosa che dopo sei anni non è successa”.

Il part-time involontario è più frequente anche nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato. “Ormai è noto che sempre più lavoro è precario e mal retribuito, e non è sufficiente a uscire da una condizione di povertà”, commentano Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, co-coordinatori del Forum Disuguaglianze e Diversità. “In questo quadro anche il part-time da strumento di conciliazione di vita e di lavoro, rischia di diventare uno strumento di ulteriore precarizzazione, soprattutto quando viene imposto e non è una scelta del lavoratore e in particolare della lavoratrice. Uno dei segni più evidenti di come abbiamo affrontato la sfida della globalizzazione mortificando il lavoro, in particolare quello delle donne”.

*Questo articolo è stato prodotto grazie alla partnership con Period think tank nell’ambito del progetto #datipercontare

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