di Mario Lavia
Coattissima me
La premier si offende facilmente e perde lo standing istituzionale, mostrando il nervosismo e la stanchezza di una leader inquieta
Sui social ci si divide tra chi attacca Giorgia Meloni e chi la difende a proposito della sua incredibile uscita di ieri davanti al presidente della Campania Vincenzo De Luca: «Presidente, sono quella stronza della Meloni». Gli ha reso la pariglia, secondo i sostenitori, dunque ha fatto bene. Il Governatore se n’era uscito mesi fa con un «quella stronza» rubato in Parlamento dai cronisti. Lei è per temperamento una rancorosa. Se la lega al dito. Ma la veste istituzionale dov’è finita, lamentano i critici.
Inutile fare i moralisti. Come sempre, la questione è politica. E allora bisogna sapere che Fratelli d’Italia da tempo “punta” la Campania. Dove non tocca palla da anni ma che ormai è una Regione contendibilissima, soprattutto se De Luca – che piaccia o no, è fortissimo – si togliesse di mezzo.
C’è tutta una nuova generazione di Fratelli meloniani che in quella regione scalpita e Gennaro Sangiuliano è il suo profeta. Poi ci si è messo l’insulto del Governatore finito sui social: «Stronza». Le è rimasto in testa per tutti questi mesi. Alla prima occasione la premier lo ha rovesciato su di lui: eccomi qua, sono la stronza.
L’episodio, in sé grottesco, politicamente segnala la perdita – non dovuta all’istinto ma a una scelta precisa – dello standing istituzionale proprio di un presidente del Consiglio. Questa è una considerazione oggettiva. Se avesse scelto di fare la stessa cosa Silvio Berlusconi, il meno istituzionale nella galleria dei premier, lo avrebbe fatto alla sua maniera, ridendo. Meloni l’ha fatto per demolire l’avversario politico, digrignando i denti. E abbassandosi al livello dell’altro.
Ora, mettiamo insieme le due cose, Fratelli d’Italia vuole cacciare De Luca e lei perde l’autorevolezza del suo ruolo: il risultato è che Meloni è tornata la segretaria di partito che era prima delle elezioni del settembre 2022. Una segretaria che sa benissimo che il suo partito non funziona e che la squadra di governo è un disastro. «Deve fare tutte le parti in commedia», ha scritto il direttore del Riformista Claudio Velardi all’indomani del famoso «chi se ne importa se perdo il referendum».
Velardi era con Massimo D’Alema quando questi era presidente del Consiglio: una cosa così non la fece mai, eppure era un tipetto mica da ridere pure lui. No, è semmai la disillusione per non riuscire a cogliere risultati concreti che alimenta il nervosismo e la stanchezza della premier unita a un super-ego che sente frustrato. Di qui il vittimismo e l’ansia di mettersi l’elmetto.
È sempre colpa di qualcun altro: il Partito democratico, il sottosegretario, il ministro, La7, Emmanuel Macron e via dicendo. Non è una questione di “coattaggine”, e finiamola con questa storia che poi finisce per essere un alibi. Questo ha tutta l’aria di essere un problema politico.
Ed è legittimo chiedersi quanto, in assenza di novità che all’orizzonte al momento non si vedono, questa sua situazione personale possa continuare a invelenire il dibattito pubblico.