Che cosa sappiamo
In attesa di capire dove andranno a finire le accuse contro lo Stato ebraico, ci sono rimaste poche verità di cui essere sicuri: i giudizi di parte delle Corti internazionali, l’uso spregiudicato del termine genocidio e l’indulgenza verso i crimini di Hamas
Chissà quando e come le Corti internazionali accerteranno l’esistenza dei crimini imputati alla responsabilità di Israele, del suo primo ministro e di un altro componente del governo di unità nazionale. Un anno? Due? Cinque? Non si sa. E chissà quali nuove prove saranno poste a fondamento delle accuse. Si vedrà.
Nel frattempo, per un giudizio che non abbisogna di toga e parrucca per essere fatto, sarebbe bene attenersi a quel che si sa già ora – e non da ora – e a quel che finora si è visto.
Si sa e si è visto che quel governo di crisi è stato messo insieme per combattere chi vuole distruggere Israele e il popolo ebraico. Si sa e si è visto che quel popolo è in armi per salvare il proprio Stato e sé stesso.
Si sa e si è visto che a quello Stato e a quel popolo è stato richiesto – cosa mai richiesta a nessuno Stato, a nessun popolo in armi – di fornire assistenza umanitaria, alimentare, medica, energetica di cui fruisce anche la milizia terroristica che riceve, inguatta e rivende quegli aiuti mentre spara su quelli che accusa di affamare la popolazione.
Si sa e si è visto che una di quelle due Corti impone l’apertura di un valico, addebitandone a Israele la chiusura con fini genocidiari e disinteressandosi del fatto che a bombardarlo è quella milizia terroristica.
Si sa e si è visto che l’avanzata criminale di Israele scopre tunnel e bunker costruiti non solo sotto alle scuole, alle moschee, agli ospedali, ma anche sotto agli edifici della cooperazione umanitaria e internazionale che affastella dossier sui crimini israeliani.
Si sa e si è visto che i ricorsi sudafricani che non menzionano una volta la parola “ostaggi” e reiterano innumerevoli volte quella cara, “genocidio”, si intrattengono sulle “zone di sterminio” (hanno scritto così, “zone di sterminio”) create a Gaza da Israele, e lo fanno sulla scorta di un apparato probatorio costituito dall’articolo di un blog e dalla testimonianza di un soldato.
Si sa e si è visto che, a sostegno di quel ricorso, il legale officiato dal Sudafrica spiega che «se cade Rafah, cade Gaza»: e si sa e si è visto che nessuno gli domanda se quel verbo – “cadere” – si riferisca ai civili di cui si chiede la protezione, e se invece non appaia più appropriato per una parte che combatte.
Si sa e si è visto che le fotografie di soldati israeliani con qualche sorriso di troppo sulle macerie di edifici usati come arsenali indignano le sensibilità pacifiste che usano quegli scatti a riprova del crimine di guerra, le stesse sensibilità pacifiste che reclamavano indagini indipendenti per appurare se davvero gli eccidi del 7 ottobre potessero addebitarsi alla responsabilità della “resistenza” e non invece – lo hanno detto, lo hanno ripetuto, lo hanno scritto – al fuoco dei tank e degli elicotteri sionisti.
Si sa e si è visto che, nel suo rapporto intitolato “Anatomia di un genocidio”, la “Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967” – insomma la finta avvocata Francesca Albanese, quella degli Stati Uniti soggiogati dalla lobby ebraica, quella fotografata tra attivisti con striscione “Boycott Israel” – spiegava di non poter indugiare sui rapimenti del 7 ottobre e sulla condizione degli ostaggi perché tali eventi «esulano dall’ambito geografico» del suo mandato: cioè nel perimetro di Gaza c’era materia scrutinabile sotto il profilo genocidiario, ma gli ostaggi assassinati, torturati, stuprati , quelli no, perché «esulavano».
Potremmo continuare, ma basta. Perché una cosa conclusiva, si sa. Si sa che tutto questo non viene dal nulla.