Laurea in tafazzismo
Le proteste degli studenti per ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza somigliano a un passatempo adolescenziale.
Non solo non otterranno nulla di concreto, ma in questo momento stanno danneggiando soprattutto i loro colleghi che vorrebbero seguire le lezioni
Non solo, nel corso della Storia, le tragedie si ripetono in farsa: qualche volta, nella cronaca, le farse le originano pure. A Gaza si consuma una tragedia, nelle nostre università va in scena la farsa. Il fenomeno riguarda mezzo mondo, ma restiamo all’Italia. E chiariamolo subito: non si tratta di parteggiare per la Palestina o per Israele, che si debba porre fine alla carneficina e che gli ostaggi di Hamas vadano liberati siamo tutti d’accordo (un po’ meno di tutti, per la verità, nel secondo caso).
Ma c’è qualcosa che non torna nelle occupazioni degli studenti pro Pal, che in molti casi bloccano da settimane l’attività didattica, gli esami, l’accesso a biblioteche e laboratori, riprecipitando l’università nel clima emergenziale del Covid, quando le lezioni potevano avventurosamente proseguire soltanto online.
Non torna, intanto, il fatto che non tutti sono studenti: avvistati anche diversi militanti della variegata galassia antagonista, che, per carità, hanno tutto il diritto di manifestare (pacificamente) il loro dissenso, ma che con l’università c’entrano poco o nulla.
Poi il fatto che gli studenti occupanti sono comunque una minoranza, alcune decine o alcune centinaia, a fronte di migliaia, decine di migliaia di loro colleghi (tanti fuori sede e quindi anche più penalizzati) che, pur solidarizzando con la causa palestinese e magari approvando la mobilitazione, vorrebbero non vedersi impedito il diritto a seguire i corsi.
Perché proprio questo è il punto, e qui si annida il paradosso. Una occupazione, allo stesso modo di uno sciopero, è uno strumento di lotta efficace quando in qualche modo lede gli interessi di una controparte: nel caso di uno sciopero in fabbrica, gli interessi del datore di lavoro; nel caso di uno sciopero nei servizi pubblici, oltre che (incidentalmente) quelli agli utenti, soprattutto (in linea di principio) quelli delle aziende che vengono private per uno o più giorni degli incassi, e incassano nel contempo il malcontento dell’utenza.
Nel caso delle università occupate la controparte diretta degli occupanti sono le autorità accademiche, ma il danno di chi è? Degli studenti, occupanti e non, ai quali viene a mancare la prestazione di cui, per il tramite delle loro famiglie, si sono caricate l’onere economico. È come se si acquistasse un biglietto aereo e poi, per protestare contro la compagnia, si rifiutasse di utilizzarlo: come si chiamava l’antonomastico autolesionista di Giacomo Poretti…? Semmai, l’occupazione avrebbe senso da parte dei professori, non pochi dei quali del resto ne condividono le ragioni.
Ma, si potrebbe obiettare, le università occupate non sono una novità: a cavallo tra il 1989 e il 1990 c’è stata la Pantera, e prima ancora abbiamo avuto il Settantasette, e prima di tutto l’epocale Sessantotto. Certo. Con una differenza, ed è qui che la ripetizione assume un aspetto farsesco.
La differenza è che in quei casi la protesta aveva come obiettivo – almeno, come obiettivo di partenza – la ridefinizione dei rapporti interni, dell’organizzazione e dei contenuti della didattica, ossia temi che riguardavano in prima persona gli studenti e il loro modo di stare nell’università, in opposizione al quale aveva una logica il blocco dell’attività accademica.
Quando invece, come nel caso presente, il focus della protesta è contro la collaborazione scientifica con le università israeliane, ma più in generale contro il governo israeliano, contro Israele e contro il sionismo (non, vogliamo sperare, contro gli ebrei), a che serve nuocere a sé stessi?
Non sarebbe meglio (più opportuno, più sensato) liberamente e variamente manifestare in piazza, come pure avviene quasi ogni giorno, o anche in ben definiti spazi e orari universitari compatibili con il perseguimento dello scopo per cui le università esistono e gli studenti si iscrivono? Tanto più quando le facoltà interessate non sono di carattere tecnico-scientifico, e quindi non attrezzate, anche volendo, per collaborazioni a presunto rischio di dual use.
Detto per inciso, qualcuno degli occupanti saprebbe indicare di preciso quali sono queste collaborazioni, quali i possibili usi militari e in quali tempi si svilupperebbero? Ci sarebbe poi da domandare perché altrettali scrupoli non investono altresì le collaborazioni scientifiche con università della Russia che ha aggredito l’Ucraina o dell’Iran che uccide le donne senza velo, ma vabbè.
È chiaro che la protesta ha ormai travalicato, nei modi e nei contenuti, i proponimenti iniziali. Le occupazioni sono diventate un happening un po’ svaccato di ragazzi che vanno e vengono, in un tempo senza tempo fuori del tempo, fanno ape, fanno festa, fanno after, fanno musica (a tutto volume: per la gioia del vicinato), fanno cucina, fanno eventi, fanno finta di fare qualcosa per la Causa, di cui ogni tanto si ricordano e allora fanno un corteo.
Questo è quanto si vede, per esempio, dall’esterno (e soprattutto all’esterno) di Palazzo Nuovo, che è la sede delle facoltà umanistiche a Torino, imbandierata di drappi nero-bianco-verdi con triangolo rosso.
All’interno, invece, c’è chi non si è risparmiato. I cronisti de La Stampa questa settimana sono penetrati in Fort Palestine e hanno documentato: scritte sui muri, sui vetri, nei bagni, lungo le scale. “Studenti Intifada”, “Con la resistenza palestinese con ogni mezzo” – e ok, inquieta un po’ quel “con ogni mezzo” ma giustamente c’è il tema Palestina, declinato ovunque senza troppa fantasia.
E però c’è anche “Fuoco ai Cpr”, “Fuoco alle galere”, “L’unico soldato buono è il soldato morto”, la A cerchiata dell’anarchia, il disegno di un kalashnikov.
Nelle università occupate c’è di tutto, in un tumultuoso caotico affastellarsi di pulsioni anche generose, sebbene a senso unico, che mescola la solidarietà con il dramma di Gaza alla lotta ideologica contro il sionista genocida e a quelle evergreen contro il governo (oggi Giorgia Meloni, ma sarebbe stato lo stesso con Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi, Letta e a risalire), contro «il sistema» e contro l’Occidente capitalista e colonialista – alla doverosa ricerca di un Nemico che faccia sentire uniti e buoni. Impegnarsi per qualche supposta buona causa è sempre meglio che disinteressarsi di quel che succede nel mondo, e se non ci si impegna per le buone cause da giovani…
E però, da tanto impegno, che cosa sortirà? Probabilmente nulla, o nella migliore (dal punto di vista degli occupanti) ipotesi la sospensione o il differimento di qualche accordo di collaborazione che avrà forse imprecisati effetti tra alcuni anni, quando la furia di Netanyahu sarà passata ma nel frattempo avrà consumato la sua opera devastante. Ma che importa?
Ai ragazzi di oggi diventati più grandi resterà il ricordo dei giorni fervorosi e sfaccendati passati a giocare all’occupazione.