di CHIARA SARACENO
Società e diritti
Da un certamente non prestigioso settantanovesimo posto nella graduatoria mondiale della parità di genere stilata dal World Economic Forum, l’Italia è scesa di otto posizioni in un anno, all’ottantasettesimo su 146.
Ciò non è avvenuto perché le cose sono peggiorate, ma perché sono rimaste sostanzialmente ferme in tutte le dimensioni prese in considerazione, mentre in altri paesi, sia sviluppati sia emergenti, ci sono stati viceversa importanti miglioramenti.
È il caso, tra i paesi con cui è più agevole confrontarsi, della Spagna, che ha migliorato di otto punti la propria, già molto più buona, posizione, entrando così nel novero delle prime dieci, un gruppo di testa cui l’Italia non si è mai neppure lontanamente avvicinata nei 18 anni in cui Il World Economic Forum ha calcolato l’indice della disuguaglianza di genere.
Ancora più impressionanti i miglioramenti di alcuni paesi emergenti, come Equador e Sierra Leone, che hanno migliorato rispettivamente di 5 e 4 punti il proprio punteggio, facendo un balzo in su in graduatoria di oltre 30 posizioni. È vero che il grado di disuguaglianza nella partecipazione e potere economici, nell’istruzione, nella salute e nelle chances di sopravvivenza, nel potere politico viene misurato in relazione alla situazione di ciascun paese.
E che i miglioramenti possono essere tanto più ampi quanto maggiori erano i divari di partenza. Perciò il fatto che Kenya, Botswana o (sorprendentemente) gli Emirati Arabi, ad esempio, abbiano una posizione in graduatoria più alta dell’Italia non significa che le donne Italiane abbiano chances di vita e gradi di libertà peggiori delle abitanti del Botswana, ma che i divari di genere sono maggiori, anche se ad un livello di benessere complessivo, di salute, di istruzione, di democrazia, di libertà, più alto.
L’indice è utile per monitorare il progresso o il regresso nel tempo nella situazione delle donne rispetto a quella degli uomini all’interno di ciascun paese.
Per valutare con più realismo la situazione dell’Italia è utile perciò limitare il confronto con i paesi più simili dal punto di vista dello sviluppo e della forma politica, a partire da quelli europei, con molti dei quali condivide l’appartenenza all’Unione Europea, quindi anche una serie di principi e norme che riguardano specificamente la parità di genere.
Ma anche in questo caso l’Italia appare in affanno, con un indice globale più basso, 0, 703, di quello medio Europeo pari a 0, 75, con sei paesi di quest’area tra i primi dieci al mondo e con 20 paesi che superano lo 0, 75. Insomma, l’Italia è nella parte bassa della graduatoria anche in quella zona del mondo cui appartiene, nonostante sia membro del gruppo ancora più esclusivo del G7.
Mentre la parità è pressoché raggiunta nell’istruzione e nella salute, i settori in cui il gender gap è più vistoso sono quello economico e, nonostante una premier donna e una leader dell’opposizione donna, quello della rappresentanza e potere politici. Anche a livello mondiale si tratta dei due settori in cui l’uguaglianza è più lontana.
In Europa, ove il gap è più ridotto che nel resto del mondo, l’indice è di 0, 678 per il settore economico e 0, 368 per il settore politico. Ma per l’Italia i valori sono rispettivamente 0, 608 e 0, 243. Comparativamente bassa partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne, gap salariali a parità di lavoro, ridotta presenza nelle posizioni di decision making e nelle professioni tecnico-scientifiche abbassano il punteggio nel primo.
La quasi parità in Parlamento che non si traduce in una parità nelle posizioni ministeriali, unita al tempo breve in cui c’è stata finora una donna primo ministro, abbassano sostanziosamente il punteggio del secondo. Una dimostrazione in più che non basta avere una (o anche due) donna leader se non si accompagna ad un miglioramento delle condizioni di parità per tutte,
Se basta votare Giorgia per trainare i voti per tutto il suo partito (ma cancellando le altre e gli altri), non basta per ridurre il gap di genere non solo in famiglia e sul lavoro, ma anche nei processi decisionali, in politica in economia.