Le navi di soccorso che operano nel Mediterraneo sono numerose,
tuttavia non sufficienti per fronteggiare il numero di persone in pericolo lungo una delle rotte migratorie più pericolose al mondo.
Dopo la cessazione del programma Mare Nostrum nel 2014, la Civil Fleet, la flotta civile delle navi di monitoraggio e soccorso attive nel Mediterraneo, è diventata praticamente l’unica risorsa per coloro che rischiano la vita durante la pericolosa traversata illegale.
Il tratto di mare che si estende dalla Libia o dalla Tunisia fino all’Italia rappresenta una barriera fisica letale, specialmente per le imbarcazioni di legno o di gomma di fortuna, spesso riciclate più volte dai trafficanti. Fino al 2014, l’operazione Mare Nostrum, avviata nel 2013 in risposta all’aumento dei naufragi nel canale di Sicilia, aveva una doppia missione: garantire il salvataggio in mare e perseguire penalmente coloro che lucrano sul traffico illegale di migranti.
Poco dopo la fine di Mare Nostrum, sostituito dal Triton nel 2014 – un’iniziativa europea anziché solo italiana – il soccorso in mare è stato escluso dagli obiettivi dell’operazione, che si è concentrata solo sul controllo delle frontiere tramite l’agenzia europea delle frontiere, Frontex.
Confrontando i numeri delle due iniziative, emerge un cambiamento significativo in termini di risorse (da circa 9,5 a 2,9 milioni di euro al mese) e di approccio. Il soccorso non è più una priorità, come comunicato dall´ex ministro Alfano durante una conferenza stampa del 31 ottobre 2014, quando ha dichiarato che ‘Triton’ “non si spingerà oltre le 30 miglia marine dalle coste italiane, a differenza di ‘Mare Nostrum’, poiché si concentra solo sulla sorveglianza delle frontiere marittime.”
Da quel momento, nel 2015, al di là della linea delle 30 miglia marine, le navi di soccorso della flotta civile hanno iniziato a operare in sostituzione delle autorità statali e i governi che si sono succeduti hanno avviato un processo prima comunicativo e poi normativo di criminalizzazione del soccorso in mare. L’ultima tappa di questo percorso, iniziato anni fa, è stata l’emanazione del decreto Piantedosi nel 2023.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Far diminuire gli sbarchi è diventato uno degli obiettivi ricorrenti delle politiche recenti. Nel decreto Salvini-bis del 2019, si stabiliva che il Ministero dell’Interno “può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale” – un diritto di cui ogni stato si avvale in base alla Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare – e che “in caso di violazione di tali restrizioni, si applica al comandante della nave una sanzione amministrativa, che varia da 150.000 a 1.000.000 di euro.”
L´attuazione di questo decreto nelle politiche dell’epoca si tradusse nella cosiddetta strategia dei “porti chiusi”, causando lunghi tempi di attesa per le navi di soccorso con i naufraghi a bordo e attirando una notevole attenzione mediatica – come nel caso di Carola Rackete, comandante della Sea Watch – e spesso risultando in sentenze a favore del soccorso.
Tuttavia, la politica dei porti chiusi come ostacolo al soccorso in mare si è dimostrata inefficace soprattutto perché i giudici interni hanno sempre affermato la legittimità del comportamento dei comandanti delle navi che operavano in conformità alle convenzioni marittime internazionali.
L’introduzione del decreto Piantedosi, dunque, di natura afflittiva o punitiva, è riuscita a ostacolare tali azioni e ad applicare effettivamente sanzioni alle navi.
Secondo alcuni report pubblicati dalle organizzazioni umanitarie nel 2023 (MSF Impact Report 2023, pp. 16-17, e SOS Humanity), le operazioni di soccorso vengono ostacolate non solo attraverso i fermi amministrativi ma anche attraverso l’assegnazione di porti per lo sbarco molto lontani.
In una mappa interattiva realizzata da SOS Humanity vengono mostrati i porti che sono stati assegnati alla nave nel 2023 e calcolati il numero di km e di giorni di ritardo che l’assegnazione di un porto lontano può causare. Anche questa modalità di assegnazione, sempre secondo le navi, e´una delle strategie più utilizzate dal governo per impedirne l’operatività. Solo nel 2023 SOS Humanity ha percorso 150.538 km extra a causa dell’assegnazione di porti come Ancona o Massa Carrara.
In aggiunta, dal punto di vista normativo, il decreto Piantedosi è intervenuto introducendo nuove sanzioni amministrative che il Prefetto può irrogare alle navi del soccorso e prevedendo specifiche condotte cui le navi dovrebbero adeguarsi.
Il decreto Piantedosi del 2023 ha introdotto una modifica significativa dal punto di vista delle sanzioni, prevedendo che il comportamento delle navi asseritamente non conforme a quanto imposto dal decreto stesso sia sanzionato con sanzioni amministrative decise dal Prefetto del luogo di sbarco. L’opzione per le sanzioni amministrative ha rappresentato uno dei principali ostacoli all’operatività delle navi fino ad oggi.
Diversamente dalle sanzioni penali, e dai sequestri delle navi imposti come misura cautelare nell’ambito dei procedimenti penali per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e altri reati connessi, che devono essere convalidati da un giudice a pena di decadenza, le sanzioni amministrative non necessitano di convalida giudiziaria e restano valide fino a quando non sono annullate o sospese in seguito ad un ricorso. .
Le tempistiche del ricorso sono più lunghe e i fermi amministrativi bloccano le navi fisicamente per l’intera durata del fermo, compromettendo le loro azioni e causando un ingente danno economico.
A questo proposito Francesca de Vittor, ricercatrice in diritto internazionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, spiega a Valigia Blu:
“La modifica che fa il decreto Piantedosi, imponendo una serie di comportamenti che navi battenti bandiera straniera dovrebbero tenere in alto mare, e sanzionando amministrativamente il rispetto di tali regole è internazionalmente illecita perché in contrasto con il principio della giurisdizione esclusiva dello stato di bandiera sulle navi in alto mare e quindi più generalmente sulla libertà di navigazione. Il soccorso in mare è imposto al comandante dal diritto internazionale, e il comandante deve svolgerlo in modo da garantire la massima efficacia del soccorso stesso e quindi la salvaguardia della vita in mare. Quando ai comandanti delle navi che conducevano nei porti italiani le persone soccorse venivano imputati reati, per esempio per non aver rispettato il divieto di ingresso, i giudici hanno immediatamente considerato che il loro comportamento era giustificato dallo stato di necessità e dall’adempimento del dovere di soccorso, non convalidando eventuali fermi di navi connessi a quei procedimenti.
La sanzione amministrativa funziona in modo diverso; viene imposta e chi è il sanzionato ricorre per l’annullamento di quella sanzione o per la sospensione di quella sanzione e quindi i tempi si allungano. Recentemente, aditi per l’annullamento delle sanzioni, sia il Tribunale di Brindisi sia quello di Ragusa hanno sospeso già in via preliminare i provvedimenti di fermo delle navi, resta il fatto che i tempi di questi giudizi, anche se accelerati, sono comunque lunghi e il dissequestro interviene dopo vari giorni di fermo a volte quando i venti giorni sono già conclusi o quasi. Il Tribunale di Brindisi sta inoltre valutando se sollevare questione di legittimità costituzionale del decreto, tra l’altro proprio per contrarietà agli obblighi internazionali”.
Per quanto riguarda invece le condotte imposte alle navi, che il decreto Piantedosi stabilisce delle condizioni, sei nello specifico, che se violate, comportano appunto le sanzioni amministrative pecuniarie e il fermo. Queste condizioni generiche non descrivono di fatto un codice specifico e sono calcate sui comportamenti regolati nelle Convenzioni internazionali. Uno dei punti del codice di condotta che stanno creando problemi alle operazioni delle navi è il punto f:
“Le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non hanno concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco. Nel caso in cui anche solo una di tali condizioni non sia ritenuta soddisfatta potrà essere emanata la direttiva ministeriale limitativa di transito e/o sosta nelle acque territoriali italiane”.
Il testo in sé, dunque, non presenta elementi problematici se non la sua scrittura eccessivamente generica che, secondo alcuni avvocati, viola i principi di determinatezza del comportamento e legalità che dovrebbe avere una legge. Ovvero, normalmente si prevede che la legge penale determini nel dettaglio e chiaramente le fattispecie criminose e le pene, per non lasciare margini di dubbio all’interprete e neanche lasciargli campo libero di applicare al reo norme o sanzioni arbitrarie di sua invenzione. Se una legge decreto varia molto nella sua interpretazione, probabilmente in questa vi è un problema di specificità.
Basti pensare infatti che delle navi sottoposte alle sanzioni nel mese di marzo 2024, a due navi, la Sea Watch 5 e Humanity 1, è stato sospeso il fermo amministrativo dai tribunali rispettivamente di Ragusa e Crotone, la Sea Eye 4 è in attesa del risultato mentre il ricorso della Geobarents è stato rifiutato dal tribunale di Massa.
Le quattro navi sottoposte al fermo amministrativo nel mese di marzo, Sea Watch 5, Sea-eEye 4, Humanity 1 e Geobarents, sono state sanzionate per aver infranto la stessa clausola – aver ostacolato le operazioni della guardia costiera libica, creando una situazione di “pericolo”.
Sea Eye, una delle navi sanzionate lo scorso marzo (alla quale è stata applicata la recidiva, che prevede un fermo amministrativo di 60 giorni invece che 20), scriveva nel comunicato stampa subito dopo la sanzione:
“Dopo aver salvato un totale di 145 persone in pericolo in mare durante due operazioni il 7 e 8 marzo, le autorità italiane hanno detenuto la nave SEA-EYE 4 per 60 giorni l’11 marzo e le hanno inflitto una multa di 3.333 euro. Il ragionamento dietro ciò non è sostenibile, poiché alla SEA-EYE 4 non è consentito dalla legge internazionale partecipare a respingimenti verso il paese in guerra civile della Libia”.
La questione della Libia
I fermi amministrativi cui sono state sottoposte le navi sono sempre stati il risultato dell’incontro in mare con la cosiddetta guardia costiera libica. Secondo le prefetture che hanno deciso di attribuire i fermi, le navi ONG, nell’operare il soccorso, avrebbero contribuito a creare situazioni di pericolo non coordinandosi con le motovedette libiche.
Molte testimonianze dimostrano come in realtà le manovre rischiose della guardia costiera libica e le pratiche aggressive verso i naufraghi o gli operatori umanitari siano la prima causa di pericolo in mare.
Guido Confalonieri, conducente di uno dei gommoni di soccorso della nave Humanity 1, racconta a Valigia Blu uno degli ultimi incontri con la guardia costiera libica, intervenuta durante un soccorso in mare:
“Stavamo distribuendo i salvagenti durante un soccorso, sono arrivati in cinque su un gommoncino molto piccolo a tutta velocità con un Kalashnikov e ce l’hanno puntato e ci hanno detto ‘andate via’ urlando. Sono saliti a bordo delle due imbarcazioni, quella appunto a cui io stavo distribuendo i giubbotti col mio gommone; hanno cercato di mettere in moto una di queste imbarcazioni con una manovra spericolata e qualcuno è caduto in acqua. Chi non è caduto in acqua, chiaramente nel momento in cui si sono trovate queste persone violente, è saltato in acqua. È una reazione che noi abbiamo purtroppo visto molte volte, che è pericolosa perché da una situazione dove c’erano comunque delle imbarcazioni non in condizioni ancora critiche ci siamo trovati in una situazione dove all’improvviso ci sono circa 40 persone in acqua.
Per fortuna comunque la maggior parte della gente che è finita in acqua aveva già un giubbotto perché noi avevamo quasi completato la distribuzione; allora hanno iniziato a recuperare persone dall’acqua. Tra l’altro hanno comunque sparato, hanno sparato in acqua, non lontano da dove si trovavano le persone. Noi abbiamo recuperato circa una trentina di persone con i gommoni, le abbiamo portate a bordo; nel momento in cui siamo tornati per recuperare le ultime persone in acqua ci hanno di nuovo puntato le armi e ci hanno detto chiaramente di andare via.
E quindi purtroppo ci siamo dovuti allontanare, abbiamo recuperato 77 persone; una ventina – noi avevamo stimato che fossero circa 100 persone sulle tre imbarcazioni – è stata riportata dalla motovedetta libica e quindi verosimilmente riportata in Libia. C’è un’aggiunta, è possibile, non è verificato, che una persona sia stata lasciata indietro. È già successo che persone siano state lasciate indietro… Questo per dire che quindi da un soccorso che appunto non era critico, si è arrivati a una situazione in cui potrebbe esserci stato un morto. Si è creata una situazione di pericolo che è paradossale perché siamo accusati di creare situazioni di pericolo quando invece sono essenzialmente i libici a crearle”.
Per questo episodio la ONG SOS Humanity é stata sanzionata e gli è stato attribuito un fermo amministrativo di 20 giorni per non essersi coordinata con la guardia costiera libica. Molti portavoce delle navi hanno evidenziato come, al momento di ricostruire le dinamiche del soccorso e di somministrare la sanzione, vengano tenuti in considerazione solo i report delle autorità libiche.
Secondo le navi ONG, quanto riportato dai libici non corrisponde alla realtà delle dinamiche di soccorso e, anzi, è una prassi narrativa utilizzata per fornire una motivazione per bloccare le navi. Nonostante venga presentato un ricorso rapido, nella maggior parte dei casi il fermo amministrativo rimane in vigore per tutta la durata della sospensione delle attività, proprio perché le tempistiche amministrative prevedono un ciclo più lento.
Nei casi in cui il giudice si pronunci a favore delle navi, diventa fondamentale che il fermo venga rimosso, anche nel momento in cui i giorni di detenzione sono esauriti. Come nel caso di Sea Watch, per il quale il Tribunale di Ragusa ha deciso di pronunciarsi e revocare il fermo alla fine del periodo di detenzione amministrativa, per sostenere che non ci fosse alcun illecito e per evitare che in futuro fosse applicata una recidiva a un illecito non compiuto. Infatti, il decreto prevede tre stadi sanzionatori che, se ripetuti, possono culminare con la confisca della nave.
Si legge sul blog della Sea Watch: “La legge Piantedosi, che, in violazione di norme ed obblighi imposti dal diritto internazionale, criminalizza l’operato delle navi delle organizzazioni non governative con accuse strumentali, sta venendo gradualmente smantellata dalla magistratura.
Ma mentre i giudici italiani sono costretti a riparare, di provvedimento in provvedimento, i danni creati da questa legge, le navi rimangono bloccate in porto e in mare si continua a morire”
Il decreto Piantedosi viene così accusato dalle ONG di violare le norme internazionali per due principali motivi: sanzionare navi che battono bandiera straniera per azioni svolte in acque internazionali e per la collaborazione con la Libia. La questione della collaborazione con la Libia è particolarmente controversa.
Le sanzioni imposte alle navi per non aver collaborato con la guardia costiera libica sollevano dubbi sulla sicurezza dei naufraghi, considerando che la Libia non è considerata un porto sicuro secondo le convenzioni internazionali. Secondo queste convenzioni, infatti, quando si verifica un soccorso, secondo la regola 33 del capitolo V della convenzione SOLAS – il comandante di una nave ha l’obbligo di prestare soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita ed è, altresì, tenuto a procedere con tutta rapidità all’assistenza di persone in pericolo in mare, di cui abbia avuto informazione. Il comandante ha l’obbligo di portare i naufraghi in un porto sicuro.
La Libia, secondo la convenzione europea dei diritti dell’uomo, non è un porto sicuro. Le ripetute sanzioni attribuite alle navi per non aver collaborato con la guardia costiera libica, oltre che infondate come risulta dalle testimonianze, celano dunque un fondamentale controsenso.
Paval Botica, comandante della Sea Eye 4, spiega a Valigia Blu:
“In futuro, se si desidera evitare il fermo, significa che quando ci troviamo nella zona di soccorso, ci troviamo di fronte a una situazione stressante e alla cosiddetta guardia costiera libica, dovremmo obbedire a chi ci ordina di allontanarci. Teoricamente, dovremmo allontanarci. Le persone verrebbero ospitate sulla costa libica, dove rischiano di essere gettate in acqua, punite, messe in prigione e trattate come schiave, contravvenendo chiaramente al diritto internazionale. È fondamentale comprendere che la Libia non è una terra sicura e che nessun porto in Libia offre sicurezza. Questo comportamento va contro il diritto internazionale. Non possiamo permettere che le persone vengano riportate in Libia, poiché la situazione è estremamente chiara e inaccettabile”.
Il paradosso dell’applicazione di questo decreto dunque è evidente quando lo Stato italiano provvede a sanzionare comportamenti che non avrebbe giurisdizione nel sanzionare e che, in sé, non violano nessuna convenzione internazionale ma anzi agiscono nel rispetto di queste.