Oggi in Louisiana, domani chissà
Quello che sta accadendo negli Stati Uniti è anche un monito rispetto alle conseguenze di un sistema in cui al vincitore delle elezioni è consentito di “catturare” in un sol colpo anche le principali istituzioni di garanzia, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”.
Lo stato della Louisiana ha varato ieri una legge che impone a tutte le scuole e università pubbliche di esporre in ogni aula i dieci comandamenti. Con un puntiglio che ha paradossalmente qualcosa di sovietico – ma è ancora davvero un paradosso, nell’epoca della destra putiniana? – la legge, fortemente voluta dai repubblicani, prescrive che il formato dei cartelli non sia inferiore a 11 x 14 pollici (circa 28 x 35 centimetri), che i comandamenti occupino «il punto centrale del cartello» e che siano stampati «in un carattere grande e facilmente leggibile».
Accanto sarà affissa anche una breve dichiarazione per spiegare che i dieci comandamenti sono stati «una parte importante dell’istruzione pubblica americana per quasi tre secoli».
A dare conto della notizia è un articolo del New York Times in cui si aggiunge, come utile elemento di contesto, che i parlamentari della Louisiana sono anche i primi negli Stati Uniti a promuovere provvedimenti per rendere il possesso di pillole abortive senza prescrizione un crimine punibile con il carcere e per consentire ai giudici di ordinare la castrazione chirurgica di chi abbia commesso reati sessuali su minori.
Naturalmente non mancano associazioni per la difesa delle libertà civili già pronte a presentare ricorso contro la legge sui dieci comandamenti. «Ma è una battaglia – prosegue l’articolo del New York Times – che i sostenitori sono preparati e, per molti versi, ansiosi di intraprendere». E qui viene la parte secondo me più interessante.
Perché la legge della Louisiana «fa parte di una campagna più ampia condotta da gruppi cristiani conservatori per amplificare le manifestazioni pubbliche della propria fede e provocare cause legali che potrebbero raggiungere la Corte Suprema, dove si aspettano un’accoglienza più amichevole rispetto agli anni passati». Aspettativa più che ragionevole, visto come Donald Trump, durante il suo mandato presidenziale, è riuscito a riempirla di estremisti e fanatici (cioè di suoi sodali).
Quello che sta accadendo negli Stati Uniti è insomma anche un monito rispetto alle conseguenze di un sistema in cui al vincitore delle elezioni è consentito di “catturare” in un sol colpo anche le principali istituzioni di garanzia, che dovrebbero assicurare l’equilibrio dei poteri e la difesa dello stato di diritto.
Sono sicuro pertanto che all’attento lettore non sfuggirà la ragione per cui mi sono tanto dilungato su un fatto apparentemente lontano, proprio nei giorni in cui Giorgia Meloni tenta di promuovere a tappe forzate le sue riforme costituzionali.
A cominciare da quel premierato che non prevede solo l’elezione diretta del capo del governo, accompagnata da una sostanziale sterilizzazione dei poteri del capo dello stato e dello stesso parlamento, ma include anche una clausola relativa alla legge elettorale, per assicurare al premier una consistente maggioranza (a prescindere, per dir così) con tutte le conseguenze immaginabili per quanto riguarda la nomina delle autorità di garanzia e degli stessi giudici costituzionali.
Dopo quello che abbiamo già visto accadere nel 2018 (e anche in seguito, per la verità), con la saldatura tra populisti al governo e populisti all’opposizione, per escludere i democratici da ogni ruolo di controllo, consiglierei a tutti di tenere gli occhi bene aperti.