Dilemma Kamala (corriere.it)

di Federico Rampini

Se davvero nell’entourage di Joe Biden e nella 
testa dello stesso presidente comincia a 
sgretolarsi il muro del negazionismo sulla 
sua salute, 

è giunta l’ora di Kamala Harris?

Sarà la vicepresidente a subentrargli come candidata, qualora il vecchio Joe si decida finalmente a ritirarsi di fronte alle pressioni di tanti amici e alleati? In realtà la Harris è una delle poche ragioni «buone» che possono aver spinto Biden ad aggrapparsi alla poltrona.

I sondaggi la vedevano fino a poco tempo fa perfino più impopolare di lui, ora le sue chance di vittoria sono solo leggermente migliorate rispetto a quelle del presidente.

Troppi equivoci circondarono la Harris quando fu cooptata nel ticket al termine delle primarie del 2020. Quattro anni fa l’ala sinistra del partito era forte; due suoi candidati, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, all’inizio avevano fatto meglio di Biden. Il vento soffiava da quella parte, era «l’estate di Black Lives Matter», segnata dalle grandi proteste dopo l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco.

La Harris in un dibattito televisivo aveva attaccato duramente Biden accusandolo nientemeno che di razzismo. Si era accodata all’atmosfera di quella stagione, per opportunismo, pur venendo da un passato tutt’altro che radicale: quando era ministra della Giustizia in California la Harris aveva inflitto pene severe ai criminali, in contrasto con la filosofia delle procure progressiste. Fu proprio quell’attacco a favorirla.

Biden dopo la sua rimonta — propiziata dai voti della base afroamericana più moderata — voleva coprirsi il fianco a sinistra. Donna, di colore, figlia d’immigrati, lei era il prezzo da pagare per placare i radicali e sedurre i media. La sua nomina fu celebrata con fuochi d’artificio: storica, rivoluzionaria. In realtà la sua biografia si prestava a tutt’altra narrazione.

La storia dei genitori (una ricercatrice universitaria indiana discendente dalla casta privilegiata dei bramini; un celebre economista afro-giamaicano) è l’apoteosi di un American Dream costruito da élite di immigrati iperqualificati che diventano classe dirigente; il contrario dell’attuale ideologia politically correct . Kamala ha recitato la parte presentandosi come un’esponente di minoranze emarginate, discriminate e oppresse.

Il mito è crollato presto, non appena Biden le ha delegato uno dei dossier più esplosivi: la crisi migratoria, la pressione dei profughi al confine Sud. Il messaggio della Harris alla sua prima missione in Centramerica fu «aiutiamoli a casa loro». Usò slogan duri, «restate perché non vi accoglieremo». Si mise contro la sinistra «no border», guidata dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez che aveva preconizzato l’abolizione della polizia di frontiera.

Quando la Harris si è immolata per questa causa, la sinistra del suo partito l’ha vista come una traditrice. La luna di miele con i media finì subito. Cominciò invece la sua discesa agli inferi, di colpo fecero notizia tutti i suoi difetti: l’impreparazione sui dossier, le risate sguaiate che punteggiano a sproposito i suoi discorsi, le liti e i licenziamenti nella sua squadra di collaboratori.

Kamala non si è mai più ripresa, i sondaggi ne avevano fatto una zavorra per Biden, non una possibile soluzione ai suoi problemi. Al tempo stesso, è quasi inamovibile. È una trappola vivente. Sostituirla vorrebbe dire, anzitutto, che Biden si era sbagliato a sceglierla quattro anni fa; poi un suo licenziamento scatenerebbe accuse di razzismo e sessismo.

In realtà un eventuale ritiro della candidatura di Biden non equivale alla nomination automatica per la sua numero due. L’unico modo in cui il presidente può cercare di «blindare» la candidatura della sua vice — ammesso che voglia farlo — è dimettersi subito: in tal caso lei gli subentra alla Casa Bianca e ha una lunghezza di vantaggio sui rivali interni (oltre a ereditare tanti fondi per la campagna).

In ogni scenario, tuttavia, i delegati che l’attuale presidente ha conquistato nelle primarie ritroverebbero la libertà. Potremmo avere una «convention aperta», a metà agosto a Chicago, come non accade da molti decenni. È lo scenario che considerano ideale coloro che premono per l’abbandono di Biden. Una «convention aperta» avrebbe il vantaggio della trasparenza. I nuovi candidati scenderebbero in campo presentando la propria personalità e proposta di governo.

Si confronterebbero tutte le anime del partito: per esempio la sinistra californiana del governatore Gavin Newsom, il centro moderato della governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, e altri. Ruberebbero la scena ai repubblicani, attirando su di sé l’attenzione nazionale. Sarebbe Trump ad apparire, finalmente, come «vecchio» in tutti i sensi: anagraficamente, e perché è un remake .

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