“Battute da caserma”, “ragazzate”, “semplice goliardia”.
È questo il livello di commento che in alcuni ambienti fisici e non si è sentito levare a commento dell’inchiesta di Fanpage su Gioventù Nazionale, il movimento giovanile del partito della premier Meloni, Fratelli d’Italia.
A fronte di uscite come «mai smesso di essere razzista e fascista», «La cosa più bella è stata ieri a prenderci per il culo sulle svastiche e le cose… E poi io che avevo fatto il comunicato stampa in solidarietà a Ester Mieli», o a chat in cui ci si dà del camerata e si ironizza su svastiche e minoranze, più di una voce si è levata per definire questi comportamenti come niente più che “cose da ragazzi”.
Si tratterebbe di “immagini decontestualizzate” di “ragazzotti che non contano nulla”, anziché delle esternazioni di gente giovane sì, ma destinata a prendere un giorno le redini del maggior partito di destra del paese. “Ignoranti” più che fascisti anche secondo autorevoli esponenti della comunità ebraica, che pure pare essere bersaglio prediletto delle discussioni tra i giovani camerati.
Insomma, una serie di aggettivazioni per far passare quella che abbiamo sotto gli occhi come una marmaglia sgangherata nostalgica di un passato impossibile da riproporre, come un fallimento della scuola pubblica più che una minaccia per l’ordine costituito: bambocci in cerca di identità all’interno di un gruppo in cui un certo tipo di tradizioni contano.
I quadri più anziani del partito di Giorgia Meloni si sono spesso formati nel clima incandescente delle violenze degli anni Settanta e la stessa premier non ha mai nascosto di essersi forgiata nel clima politico non certo disteso della periferia romana.
Un’eredità ingombrante per i ventenni di Gioventù Nazionale che possono anche scrivere in chat di dirsi disposti a menare le mani contro qualche “zecca”, ma di certo, per molti commentatori, tutto sembrano fuorché i possibili eredi dei violenti che fecero la Marcia su Roma.
Il paradosso però, a ben vedere, è che proprio di ragazzini in cerca di approvazione di generazioni che avevano visto i fratelli maggiori temprarsi nella violenza, invidiandola, di sbarbatelli col mito di fare a cazzotti ma scarse possibilità di mettersi alla prova “sul campo”, erano piene le squadracce fasciste degli anni Venti.
Alberto Cappa (1903-1943), lucido e precocissimo intellettuale antifascista, fin dagli anni dell’università scrive sul tema lunghi articoli pubblicati da La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti, poi raccolti in un saggio dal titolo Le generazioni nel fascismo edito per la prima volta già nel 1924, nei mesi convulsi dell’assassinio di Giacomo Matteotti.
L’analisi di Cappa è importante per un serie di ragioni, la più potente delle quali sta proprio nel fatto che egli scrive della fascinazione per il fascismo dei suoi coetanei, quelli venuti dopo i tanto mitizzati “ragazzi del ‘99” [p. 28]:
«Generazione di adolescenti, cupi, inchiodati dal tormento di non poter fare e di non saper fare, in un periodo in cui tutti fanno; non più bambini, per non avvertire confusamente come il fatto che si compie sia destinato a un’importanza decisiva, anche per la loro esistenza, su cui avrebbe pesato, non possono in alcun modo parteciparvi.»
Una massa di ragazzi e ragazzini che vive con invidia l’esperienza guerresca di chi li ha preceduti e che sente, per non aver ancora provato l’ebbrezza della battaglia, di essere sul punto di perdersi l’occasione di agire.
Per questo motivo vengono attirati a centinaia dalla propaganda fascista, ingrossando le fila di un movimento ancora scarsamente innervato di ideologia, confuso nel proprio agire e chiaro solo nell’esaltazione di quella violenza che i giovani bramano per sentirsi finalmente grandi. E il fascismo movimentista gioca in questo un ruolo di attrazione forte. Una attrazione non ideologica ma, per dirla con Umberto Eco, retorica [Cappa, p. 29]:
«Il fascismo agita molte idee confuse e contraddittorie ma di chiaro vi è soltanto che vuole agire per continuare la guerra».
Le squadracce fasciste, fotografa in presa diretta Cappa [p. 30], sono così costituite non tanto dalla “trincerocrazia” dei reduci della Grande guerra, ma da giovanissimi scapestrati che hanno il mito dello scontro sedimentato negli strascichi della propaganda di guerra:
«Il manganello: ecco la vendetta e la penosa illusione di un’adolescenza senza dolci illusioni e senza sorrisi spontanei! Nel primo moto fascista, diciottenni, sedicenni, che non parteciparono alla guerra, hanno parte preponderante. […] Se dal ‘20 al ‘22 la lotta politica italiana si presenta come una vera guerra civile, almeno da parte fascista, la responsabilità od il merito, a seconda dei punti di vista, ne spetta ai giovanissimi, perché sono essi soprattutto che l’hanno fatta, rappresentandone l’elemento entusiasta e più attivo. Le spedizioni punitive sono in gran parte opera loro. I fratelli maggiori, reduci dall’altra guerra, inquadrano e istruiscono, i giovanissimi imparano subito e formano la massa che agisce senza scrupoli.»
È la generazione nuovissima, carica di una mitologia ereditata e ancora poco ideologizzata, che materialmente compie la violenza fascista. Che spacca le teste degli operai davanti alle fabbriche, stronca i cortei, riempie i treni in direzione Roma nell’ottobre del 1922.
Un braccio armato che sa poco o nulla di teoria, scimmiotta la vita da trincea e la esalta proprio perché non l’ha vissuta e ha solo voglia di sentirsi parte di un progetto più grande; in una parola, di conquistarsi un’identità.
Proprio perché imbevuti di simboli ma a secco di ideali, questi ragazzini diventeranno uno dei principali motivi di imbarazzo per la generazione dei fascisti quarantenni impegnata dopo il 1922 a darsi un volto presentabile: la “teppa”, come la definisce lo stesso Mussolini [vedi D. Bidussa, Benito Mussolini. Scritti e discorsi, Feltrinelli, Milano 2022, p. 42 e ssg.], che serve per aprire le porte dei palazzi del potere, ma è d’intralcio quando questi palazzi diventano casa.
L’inchiesta di Fanpage sul movimento giovanile di Fratelli d’Italia ha portato alla luce quello che in fondo molti sospettavano: una forte presenza e una diffusa accettazione da parte dei giovani aderenti a Gioventù Nazionale di slogan, simboli e strumenti identitari direttamente collegati ai pezzi peggiori della storia nazionale: leggi razziali, antisemitismo, disprezzo per la democrazia, esaltazione della violenza.
Non appare, ed è sconfortante, una presa d’atto e un’analisi più moderna di quello che fu il fenomeno fascista; non vi è coscienza politica – se ci fosse questa cancellerebbe quel passato almeno per ragioni di opportunità – e nemmeno cognizione storica.
Per una parte della storiografia ufficiale, quella formatasi attorno agli anni Settanta-Ottanta, l’idea che il fascismo sia finito nel 1945 resta un dogma difficilmente discutibile; ma questo assunto non sembra toccare i giovani camerati del partito di Meloni.
Il calabrone, si diceva un tempo, fisicamente non ha una forma adatta al volo, ma il calabrone non studia fisica e per questo vola comunque. Allo stesso modo questi ragazzi per una parte dell’accademia italiana non possono essere fascisti, ma siccome loro la storia non la studiano, fascisti si dicono comunque.
Che questa chiusura, questa superficialità storica, questa ottusa volontà identitaria siano sintomi di gretta ignoranza non sminuisce in nulla la pericolosità di quanto accertato, anzi.
Forse è ancora più pericoloso sapere che all’interno di un’organizzazione giovanile che aspira a costruire la classe dirigente del futuro ci sia così tanta superficialità nel trattare temi che sono ancora oggi carne viva all’interno della memoria pubblica del paese. Che non siano in malafede, ma solo “sciocchi”, è in questo caso un’aggravante.
La massa di manovra che trascinò l’Italia nel primo grande esperimento di ingegneria sociale del Ventesimo secolo non era costituita da idealisti temprati dalle fatiche della guerra o da fini intellettuali che scendevano in piazza con alle spalle pesanti bagagli teoretici: questo paese divenne fascista anche perché gruppi nemmeno troppo numerosi di “ragazzotti che non contano nulla” ridevano alle battute lascive dei vecchi e scherzavano sulla “Madonna del manganello” scendendo in piazza a sostenere Mussolini.
Teppisti sciocchi, non politici, che vennero mandati a seminare il terrore nelle strade col solo ordine di “menare i rossi” e con la promessa che queste loro azioni li avrebbero finalmente fatti accogliere nel mondo dei grandi.