Se ti dimetti, ti libero: l’ex braccio destro di Toti e la “lezione” della gip (ildubbio.news)

di Tiziana Maiolo

La revoca dei domiciliari per Cozzani, già capo 
di Gabinetto del presidente, è stata possibile, 
ammettono le toghe, grazie al passo indietro

Paolo Emilio Signorini, l’ex presidente del porto di Genova e amministratore delegato già licenziato dalla società di servizi Iren, potrebbe presto lasciare il carcere di Marassi dove è detenuto dal 7 maggio.

Potrebbe, ed è paradossale, qualora trovasse qualcuno disposto a ospitarlo, possibilmente lontano da Genova. A quanto pare i giudici del Tribunale del Riesame Massimo Cusatti, Marina Orsini e Marco Canepa non ritengono adeguate, per la detenzione domiciliare, le destinazioni proposte finora dai suoi legali. Né un’abitazione genovese presa in comodato d’uso, né un’ altra, sempre nel capoluogo ligure, offerta da una cugina, e neppure quella di un fratello residente ad Aosta.

Si lascia intendere che sarebbe accettabile l’eventuale ospitalità da parte dell’ex moglie nella sua casa di Roma. Sempre ammesso che il superamento della forma più grave di custodia cautelare non debba sfociare in un aumento di conflittualità coniugale.

In ogni caso i giudici hanno preso atto del fatto che Signorini, non più a capo del porto, incarico che ha lasciato da oltre un anno, e non più neppure nel board di Iren, difficilmente potrebbe, dal domicilio, fare danni, ripetere i presunti reati o danneggiare le prove, cercando di condizionare eventuali testimonianze, ormai rese ad ampio raggio.

È stato invece liberato, per quel che riguardava l’inchiesta genovese, ma presto lo sarà anche per il troncone di La Spezia, Matteo Cozzani, l’ex capo di gabinetto di Giovanni Toti, quello da cui tutto iniziò. E che si ritrova anche invischiato in una sorprendente inchiesta di mafia, solo per avere promesso ma mai concesso, secondo l’accusa, un posto di lavoro o un cambio di casa popolare a un gruppo di siciliani originali di Riesi, uno dei quali cognato di un boss.

Cozzani è libero soprattutto perché si è dimesso dall’incarico. La gip Paola Faggioni non ha timore a metterlo nero su bianco. Recita infatti un passo della stessa ordinanza: “… le intervenute formali dimissioni dall’incarico nel gabinetto del presidente della Regione Liguria costituiscono elementi favorevoli all’indagato che fanno ragionevolmente ritenere che le esigenze cautelari, sia pure ancora presenti, si siano ridimensionate”.

Perché diciamo che la giudice non ha avuto timore a motivare in questo modo la riduzione delle misure cautelari? Perché lo stesso giudizio, se trasferito sul principale indagato, il governatore Giovanni Toti, avrebbe una esplicita valenza politica. Significherebbe che la magistratura avocherebbe a sé il diritto di sovrapporsi alla libera scelta degli elettori. Non è un caso che la stessa legge vieti di interdire l’esercizio degli “uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”.

Non si può dire a un eletto “se non ti dimetti ti tengo agli arresti”, insomma. Ma rimane il fatto che il presidente della Regione Liguria, che riveste una carica protetta costituzionalmente, è agli arresti dal 7 maggio.

E resta da vedere, dopo che l’indagato è stato interrogato per otto ore e ha risposto a 180 domande, dopo che sono state sentite decine di persone informate sui fatti e nessun elemento nuovo pare essere emerso, se davvero la misura cautelare degli arresti rivesta ancora, come prescrive il codice, elementi di concretezza, attualità e indispensabilità. Ma così ritengono i pubblici ministeri e così la pensa in modo omogeneo con l’accusa, la gip Paola Faggioni.

Nel frattempo il governatore della Regione Liguria, autorizzato dalla giudice, ha potuto incontrare assessori, rappresentanti delle forze politiche che sostengono la sua giunta e infine, nella giornata di ieri, i suoi referenti politici nazionali, Maurizio Lupi e Pino Bicchielli, presidente e vice di “Noi moderati”. Vita normale da governatore e da politico. Però in ceppi. Per quale motivo? La parola adesso è ai tre giudici del Tribunale del Riesame, cui si è rivolto l’avvocato Stefano Savi, che si riunisce il prossimo lunedì 8 luglio.

Ci vorrà un bel coraggio, da parte loro, qualora ritenessero non più attuali e concrete le misure cautelari, per prendere le distanze da una Procura che ha lavorato al caso per quasi quattro anni e da una gip che pare convinta che Toti sia un corrotto compulsivo, tanto da spostare l’orologio del pericolo di replica del reato dalle elezioni europee appena trascorse fino alle future regionali del settembre 2025.

Ma ci vorrebbe ancor più coraggio a spiegare all’interessato, al suo difensore, a un’intera classe politica e soprattutto all’opinione pubblica, per quale motivo Giovanni Toti debba continuare a restare agli arresti. Dov’è la mitica pistola fumante della prova regina? Dove si nasconde il malloppo della corruzione? Dove le “utilità”? Dove il nesso di causalità tra l’attività amministrativa del presidente della Regione e i parchi e ufficiali versamenti alla sua lista elettorale?

È ormai chiaro che se Giovanni Toti non sarà liberato al più presto, se anche i giudici del Riesame dovessero condizionare la sua uscita dalle manette domestiche alle dimissioni da governatore, il problema sarà ormai solo politico e anche di grandi dimensioni. E non si potrà più negare la pretesa, da parte della magistratura, di condizionare la vita politica del paese sostituendosi alla libera scelta dei cittadini elettori.

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