Hannah Arendt contro la tirannia delle parole (doppiozero.com)

di Michele Ricciotti

«La tirannia peggiore di tutte è quella 
delle parole». 

In un articolo sulla rivoluzione ungherese del 1956 pubblicato su «The New Reader», Ignazio Silone contestava l’uso dell’aggettivo “sovietico” applicato, tra le altre cose, all’esercito russo.

Il sistema dei consigli (soviet), in realtà, era stato fedele alla sua vocazione originaria per un tempo molto breve, e solo una autoinflitta cecità poteva consentire di difendere un regime che aveva ormai soffocato, oltre che tutte le forme di partecipazione popolare alla vita politica, anche ogni espressione di dissenso interno.

L’articolo di Silone (consultabile qui; il passo riportato all’inizio di questa recensione è a pagina 15) viene evocato da Hannah Arendt nell’ampio saggio da lei dedicato alla rivoluzione ungherese e ora per la prima volta edito in versione integrale in italiano (La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario, a cura di Simona Forti e Gabriele Parrino, Raffaello Cortina, 2024). La vicenda è tristemente nota.

Nel novembre del 1956 i carri armati sovietici reprimono la rivolta nata nella capitale ungherese. Della primavera di Budapest, Arendt scriverà in toni enfatici che a tratti sfiorano la retorica: «La rivoluzione in Ungheria è stata l’ultimo gesto politico della lotta per la libertà» (p. 3); ad animare i rivoluzionari non erano rivendicazioni particolari, ma «esclusivamente il desiderio puro di Libertà e Verità» (p. 49).

Nei giorni della rivoluzione, Arendt, già diventata cittadina americana dopo la fuga negli Stati Uniti del 1941, si trova in Europa, e la vicinanza di quelle vicende la porta non soltanto a interrogarsi sulle ragioni “genetiche” della rivoluzione ungherese, ma anche a proiettarne il significato su un piano metastorico e valoriale.

Se Arendt tratteggia la cornice storica all’interno della quale l’insurrezione si colloca, è solo per mostrare come tale cornice non riesca a contenere la portata dirompente dell’evento-rivoluzione. Come scrive Simona Forti nella sua efficace introduzione al volume: «Gli attori rivoluzionari si esprimono senza copione, provando forse per la prima volta la gioia dell’inizio, senza alcuna predeterminazione di partito» (p. XXIII).

E ancora, spostando lo sguardo dal piano storico a quello filosofico: «in Hannah Arendt la consapevolezza dell’aporia del rapporto tra forma ed evento è profonda. Ciò che possiamo fare per tenere accesa la speranza dell’evento è incessantemente ricordarlo» (p. XXVII). È proprio la difficoltà di descrivere la rivoluzione in termini semplicemente “storico-formali” a giustificare l’enfasi delle parole adoperate da Arendt.

La “Libertà” e la “Verità” da lei evocate sono i simboli di ciò che sembra sottrarsi allo sviluppo regolare della storia e scompaginare il semplice resoconto lineare degli accadimenti che ne strutturano l’ordito. Basti pensare al fatto che saranno proprio i settori della popolazione che il regime sovietico si era premurato di ingraziarsi – studenti universitari e operai, ma anche intellettuali e politici – a rivolgersi contro il regime stesso in un moto destinato a concludersi in tragedia.

La verità e la libertà che essi incarnavano non erano vincolate a pastoie ideologiche di sorta né a circoscritti reclami sociali, ed è per questo che alla rivolta poterono prendere parte persone di diverso orientamento politico, comunisti compresi.

Il testo è dunque l’interpretazione di un avvenimento storico specifico, ma è anche (nel primo capitolo) un resoconto dettagliato di come in Russia fosse stato riempito il vuoto di potere creatosi dopo la morte di Stalin e (nel terzo e ultimo capitolo) un’indagine circa le caratteristiche principali dell’imperialismo europeo e del “sistema dei satelliti” russo.

L’imperialismo di fine Ottocento era stato “trattenuto” da una contraddizione interna: la spinta espansionista cozzava infatti con la configurazione statale e con l’ideologia nazionalista di potenze incoraggiate all’espansione territoriale da ragioni innanzitutto economiche.

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Questo non valeva per l’impero russo, istituitosi fin da subito come un insieme più o meno organico di popolazioni, etnie e culture diverse: «La Russia non è mai stata uno Stato-nazione […]. Il principio dell’autodeterminazione nazionale, l’incubo dei vecchi imperialisti che dovevano negare ai propri sudditi quel medesimo principio su cui si basa la loro esistenza politica, non preoccupava minimamente i governanti moscoviti» (p. 84).

È proprio l’assenza di questa tensione autoregolativa a rendere “totalitario” l’imperialismo russo che però, a differenza di quello “continentale”, «non ha mai adottato alcun contenuto razziale ed etnico [völkisch]» (p. 90).

Insieme a quello di Forti, il volume accoglie un secondo saggio introduttivo, a firma di Gabriele Parrino, che fa il punto, oltre che sulle vicende editoriali dell’articolo di Arendt, anche su un tema specifico su cui l’analisi arendtiana si concentra: la democrazia consiliare istituita in Ungheria nei giorni della rivoluzione e di cui Arendt non si stanca di illustrare le potenzialità, in alternativa al sistema partitico-rappresentativo su cui si reggono le democrazie occidentali.

Più che la forma di governo incarnata dai consigli, Arendt sembra però interessata all’istanza di cui sono espressione: «Quando i governanti russi si son trovati di fronte a un’autentica azione politica, e non a meri dibattiti ideologici, hanno capito in modo sorprendentemente rapido come la libertà sia insita nelle capacità umane di azione e di pensiero e non altrettanto nelle cose materiali» (p. 76).

Non tanto l’aspetto economico-materiale, quanto la proiezione politica della libertà reclamata nei giorni della rivoluzione preoccupava gli alti dirigenti sovietici. Arendt sembra così istituire quel disallineamento tra la sfera (politica) della libertà e quella (economica) dell’emancipazione che trova piena espressione in The Human Condition (1958) e che comprensibilmente non ha mai entusiasmato gli interpreti di orientamento marxista.

Tuttavia, Arendt è molto distante dal pensare che possa darsi libertà a prescindere dal riconoscimento di un grado minimo di benessere economico; ritiene piuttosto che le due istanze, quella propriamente politica e quella economica, insistono su orizzonti della “condizione umana” irriducibili l’uno all’altro.

A dispetto della “disattenzione”, spesso contestatale, per la dimensione storico-effettuale delle vicende politiche, nel corso del testo Arendt sembra rivendicare proprio il primato dell’evento storico, a contatto con il quale le forme-ideologie rivelano tutta la loro evanescenza.

Insomma, La rivoluzione ungherese e l’imperialismo totalitario è un volume importante sia per aggiustare il fuoco del nostro sguardo sul pensiero arendtiano, sia per meglio comprendere quelle che Simona Forti, nell’introduzione all’edizione italiana delle Origini del totalitarismo, ha chiamato le “figure del male” del Novecento europeo.

Di fronte alla “tirannia delle parole”, Silone si appellava all’evidenza della verità storica e chiudeva il suo articolo evocando il “patto con la verità” auspicato dal drammaturgo ungherese Gyula Háy. Dal momento che il richiamo alla verità è l’unico strumento per diradare i fumi delle ideologie, possiamo essere certi che anche Hannah Arendt avrebbe sottoscritto un tale patto.

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