In Italia l'espressione ritorna ogni volta che si devono spiegare la politica negli Usa o personaggi come J.D. Vance.
Ma la formula non descrive l’America reale, solo una versione esotica del Paese che esiste negli occhi di chi lo osserva da lontano.
Dal primo dibattito presidenziale non sono nemmeno passate tre settimane. Il tempo di assistere a un attentato, esaminare minuziose perizie psichiatriche a distanza sulla salute di Joe Biden, e registrare la nomina freschissima di J.D. Vance come candidato alla vice-presidenza per i Repubblicani. In buona sostanza, dopo una stanca fase di studio, la corsa alla presidenza americana sembra essere finalmente entrata nel vivo.
E con essa, ha iniziato a consumarsi a velocità sempre crescente uno dei rituali più classici dei mesi di campagna elettorale: la grandinata di commenti, previsioni, saggi di sociologia in in cui esperti di varia estrazione e appartenenza politica articoleranno la loro ricetta per spiegare l’America.
Mentre tormentoni linguistici inossidabili torneranno a darci materiale per partite di bingo all’ultimo sangue. “Un paese diviso”; la “working class”; le “elite costiere” e i loro “prestigiosi atenei”; “il voto dei latinos”. Oppure ancora “le casalinghe di periferia” — perché “donne dei quartieri residenziali suburbani” suonerebbe effettivamente malissimo; o i “rednecks”, con i loro fucili ovviamente spianati e pronti a sparare.
Tutto impallidisce, però, di fronte alla regina di tutte le ossessioni: l’America profonda. Un termine elusivo, magnetico, che si è fatto strada nei generi testuali più vari. Blog di viaggio, articoli di fondo, recensioni di concerti di Bruce Springsteen e Bob Dylan, reportage fotografici.
Fino alle opere, quelle davvero illuminanti, dei grandi studiosi della cultura americana – da Alessandro Portelli a Marco D’Eramo. Ma il cui significato continua però a rimanere piuttosto difficile da afferrare.
Cosa si intende, esattamente, per America profonda? Attestata nell’editoria italiana già dagli anni ’80, l’espressione ha avuto un’impennata a cavallo del nuovo millennio, in concomitanza con la prima vittoria elettorale di George W. Bush. Il termine si riferisce essenzialmente a qualsiasi area del Paese non faccia parte delle città costiere principali: New York, Washington e Boston a Est; Los Angeles, San Francisco e Seattle a Ovest.
Un’accozzaglia eterogenea di biomi, paesaggi, insediamenti, economie, tutti racchiusi nel territorio sconfinato che si estende dai monti Appalachi al deserto della California. Ma i cui abitanti, a fronte di tanta diversità, finiscono spesso con l’essere rappresentati come un blocco monolitico, quasi caricaturale: conservatori, isolazionisti, religiosi fino al bigottismo.
Il tutto, inserito in una prospettiva di paternalismo marcato, tanto affranto quanto morboso. In cui l’America Profonda diventa “ineffabile regina dei parcheggi per camionisti” e “santa miracolosa per viaggiatori solitari”; una terra di “atmosfere torbide e intrise di sotterranea violenza” e “sudici motel”; di “casalinghe ed operai” e “intensi traumi nell’anima”.
Per citare giusto alcune espressioni che parrebbero il frutto di un malfunzionamento di ChatGPT, ma accompagnano in realtà alcune tra le prime venti occorrenze di “America profonda” prese a caso dal database ItWac – con oltre un miliardo e mezzo di parole la più grande raccolta digitale annotata di testi in italiano.
È proprio questo ossessivo evocare atmosfere da beat generation – riguardo a luoghi che in certi casi non sono poi troppo diversi da un paese di provincia italiano – a illustrare come il termine abbia una funzione espressiva, più descrittiva. Non serve a identificare degli aspetti tangibili della realtà esterna; ma ad esprimere l’atteggiamento di chi lo usa.
Dando voce alla modalità ambivalente che abbiamo di rapportarci alla parte del continente americano che conosciamo meno, eppure ci attrae di più. Un mondo che immaginiamo come puro e autentico, ma pure inaccessibile e selvaggio – geograficamente e, soprattutto, culturalmente.
Non è un caso che, alla prova dei fatti, l’America profonda sia una categoria in larga misura esogena. Che nella società americana – che pure di tempo ad auto-analizzarsi ne trascorre parecchio – non esiste. O almeno, non negli stessi termini. L’espressione stessa, del resto, sembra la fusione ideale di due nozioni simili ma assolutamente distinte, quelle sì, invece, molto salienti nell’immaginario statunitense.
Una è quella di rural America. Un termine che gli analisti d’oltreoceano usano per identificare tutto quanto sfugge al tessuto urbano, e che tende a portare il grosso dei voti conservatori. L’espressione è apparentemente simile alla nostra, ma presenta due importanti differenze: rappresenta una categoria demografica ben più precisa – St. Louis e Chicago sono America profonda, ma non certo rurale; e non si porta dietro una valenza emotiva particolarmente forte – a parte l’occasionale spruzzata di disprezzo classista che permea il discorso liberale.
L’altra è quella di deep South. Il nocciolo degli Stati meridionali compresi tra l’Atlantico e il Mississippi: Louisiana, Mississippi, Alabama, South Carolina and Georgia. Questi sì “profondi”, e infatti rappresentati nell’immaginario americano attraverso una prospettiva estremamente simile alla nostra. Da una parte retrogradi e reazionari, aggrappati a una nostalgia del passato che spesso sconfina nel razzismo più becero.
Ma dall’altra misteriosi e magnetici. Come le paludi sconfinate, le verande coloniali, le fritture ciclopiche, e le fascinose note di jazz e blues che sono diventate delle icone globali di questi territori. L’effetto finale è quello di generare una sorta di matrioska degli stereotipi. Ricreando dall’interno, e su una regione molto più ristretta, quello stesso sguardo esoticizzante che gli stranieri adoperano per parlare dell’intero Paese.
Eppure, l’essenza di un’espressione assimilabile a “deep America” nel lessico americano non deve trarre in inganno. Anche oltreoceano, fantasie nostalgiche molto simili alle nostre sono ben documentate, e vanno ben oltre i confini del profondo Sud. L’esempio più fulgido, e di cui nei prossimi mesi si parlerà di più, è quello di J.D. Vance.
Appunto, fresco candidato alla vicepresidenza repubblicana, che ha vissuto sulla propria pelle due delle incarnazioni più vivide del concetto di America Profonda: le impenetrabili montagne dell’Appalachia, teatro di estrazione mineraria incontrollata prima, e dell’altrettanto violenta epidemia degli oppiacei qualche decennio dopo; e le pianure dell’Ohio orientale, dove l’industria pesante della Rust Belt prima è esplosa, e poi è caduta vittima dell’abbandono.
Proprio di questi luoghi Vance ha parlato a lungo nel suo memoriale Hillbilly Elegy (uscito in Italia per Garzanti con il titolo Elegia americana). Una raccolta di ricordi in cui, tra aneddoti surreali e analisi antropologiche sommarie, ha cercato di mettere assieme l’affetto nostalgico per quegli ambienti rustici, presentati come una jungle sociale in cui i cazzotti e gli insulti erano gli unici strumenti efficaci per comunicare; e la voglia disperata di smarcarsi da quelle dinamiche.
Da un lato l’esperimento ha funzionato, come mostrato dal successo, e dal genuino apprezzamento, che ha accompagnato la pubblicazione del libro, anche da buona parte parte del pubblico progressista. Dall’altra, qualcuno ha prontamente smascherato il giochino, accusando Vance di essere un grifter, un approfittatore che ha sfruttato la propria posizione per imbastire una gigantesca operazione nostalgia, volta essenzialmente ad accumulare capitale politico – una tesi che, dopo tre anni da senatore, vari voltafaccia ideologici, e una candidatura da vice-presidente, appare sempre più difficile da confutare.
E proprio il desiderio di smontare le fantasie esoticizzanti di Vance ha ridato linfa a uno dei filoni giornalistici e letterari più interessanti delle scienze sociali americane: una serie crescente di saggi e articoli volti a decostruire l’immagine dell’Appalachia bifolca e primitiva dipinta dall’elegia, e a inquadrare la sofferenza dei suoi abitanti nelle devastanti dinamiche storiche ed economiche che da sempre mettono in ginocchio la regione (per chi fosse interessato, qui un ottimo esempio)
E così, da qualsiasi parte la si guardi, si fa strada un dubbio: se l’America profonda non si sa bene cosa sia e forse non esiste nemmeno, ha davvero senso parlarne? Probabilmente sì, almeno dalla nostra parte dell’Oceano. Un po’ perchè è comunque una categoria utile per farsi un’idea di massima – seppur estremamente approssimativa – di certe dinamiche geografiche e culturali.
Che è poi la funzione cognitiva che permette a molti stereotipi, pur nel loro conclamato pressapochismo, di continuare a sopravvivere. E un po’ perché il termine stesso presenta una preziosa occasione di riflessione, facendo emergere un sottile nesso linguistico che accomuna il nostro modo di associare la provincia all’esotico – dalle praterie degli Stati Uniti al cortile del nostro vicino.
Così come essere profonde non sono mai Manhattan o Hollywood, non lo sono nemmeno Milano o Roma quando si parla di Italia. Profondo è invece tutto lo spazio che riempie gli interstizi, inglobando luoghi che percepiamo come tanto inquieti quanto irresistibili. Raramente la persona che scrive si identifica con queste realtà profonde.
E se lo fa, se ne distacca e riavvicina con sguardo straniante, come se non gli appartenessero davvero. Come il profondo Veneto cantato dalle Luci della Centrale Elettrica, “quello senza traffico, dove il cielo è limpido”. O il profondo Molise, “dove la banda ultra-larga è ancora un miraggio”.
In fin dei conti, proprio come in molte contee del Mississippi.