Pochi giorni prima del tentato assassinio a
Donald Trump il 13 luglio a Butler, in Pennsylvania,
la rivista The New Republic stava per uscire con
una copertina che raffigurava l’ex presidente con
le fattezze di Adolf Hitler.
“Oggi noi di The New Republic”, si legge nell’editoriale di presentazione del numero, “pensiamo di poter passare quest’anno elettorale in due modi. Possiamo passarlo a discutere se Trump soddisfi i nove o i diciassette punti che definiscono il fascismo. Oppure possiamo passarlo dicendo: Ci è dannatamente vicino, e faremmo bene a combattere”.
Sfiorata per appena pochi millimetri la tragedia della morte dell’ex presidente, il Partito repubblicano aveva già pronta la linea d’attacco. “Il principale presupposto della campagna di Biden è che il presidente Donald Trump è un fascista autoritario che deve essere fermato a tutti i costi.
È una retorica che ha portato direttamente al tentato assassinio”, ha dichiarato il candidato vicepresidente J.D. Vance su X. Per il senatore Tim Scott l’attentato sarebbe stato “favorito e istigato dai grandi media, che incessantemente definiscono Trump una minaccia per la democrazia, un fascista, se non peggio”.
Altri esponenti trumpiani sono stati ancora più espliciti nell’addossare a Biden e ai Democratici la responsabilità degli spari, tuttavia, in generale, non ci sono state variazioni significative dal copione vittimista: la sinistra e i suoi organi di stampa hanno creato un clima d’odio che ha ispirato la violenza.
È una strategia argomentativa che rischia di essere terribilmente efficace e di menomare la campagna dei Democratici, già in salita per le incognite sulle condizioni di salute di Biden, la fronda interna che spinge per un suo passo indietro e l’indignazione dell’elettorato musulmano e giovanile per il sostegno alla guerra del premier israeliano Netanyahu a Gaza.
I Democratici, che necessitano della massima mobilitazione possibile, perderebbero la più importante freccia al proprio arco, se rinunciassero, anche in parte, ad agitare il pericolo autoritario posto da una nuova presidenza Trump.
Molti segnali lasciano presagire che il refrain vittimista possa funzionare, inducendo i media a sorvolare sul programma illiberale del partito repubblicano per paura di partecipare alla spirale d’odio che avrebbe sobillato il giovane Thomas M. Crooks, registrato come Repubblicano, anche se a 17 anni figura una sua donazione di 15 dollari per per un comitato elettorale del Partito democratico.
“Possiamo aspettare di vedere qualche prova concreta prima di dichiarare Trump il nuovo Mandela?”, ha scherzato Tim Miller di The Bulwark. In effetti, nulla lascia trasparire che Trump abbia intenzione di rinunciare ai suoi propositi: essere un dittatore, ma solo per un giorno; perseguire penalmente Biden per brogli elettorali; sospendere la Costituzione; ricorrere a una legge del 1807 per inviare l’esercito nelle strade a reprimere le proteste; legare il potere giudiziario a quello esecutivo; sostituire migliaia di dipendenti federali con suoi fedelissimi. Il discorso pronunciato giovedì alla Republican National Convention, il primo da dopo l’attentato, non ha certo sconfessato questi aspetti.
È il paradosso di questa allarmante campagna elettorale, che la stampa internazionale tiene a sottolineare come la prima fra due candidati ottantenni, ma che, in realtà, è la prima nella Storia americana a svolgersi dopo un colpo di Stato fallito, quello del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill.
Oggi i suoi mandanti politici non solo sono rimasti impuniti, ma sono anche riusciti a rovesciare sugli avversari la responsabilità della violenza. E il giornalismo sembra impreparato all’autoritarismo.
Mentre il partito repubblicano è da tre anni impegnato in una sfacciata operazione di revisionismo storico sull’assalto al Campidoglio, variamente definito come una “normale gita turistica” o un “inside job” organizzato dall’FBI, e sui suoi partecipanti, martirizzati dallo stesso Trump al livello di “patrioti”, “ostaggi” e “prigionieri politici”, la società americana viene caricaturalmente descritta come polarizzata da due opposti ed equivalenti estremismi.
Sì, è vero, gli Stati Uniti sono un paese pieno di armi, e sempre più cittadini giustificano il ricorso alla violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti politici. Un adulto su cinque pensa che occorra la violenza per riportare in carreggiata il paese, una percentuale che sale al 28% fra gli elettori repubblicani e scende al 12% fra i democratici.
Tuttavia, nessuno più di Trump e della sua fazione MAGA ha agito attivamente per incoraggiare la violenza. Lo hanno fatto con le teorie del complotto, la demonizzazione degli oppositori, anche interni, e l’individuazione di precisi bersagli contro cui aizzare i sostenitori.
Nell’autunno 2020, pochi mesi dopo che Trump aveva invocato la “liberazione” del Michigan, in disaccordo con le misure anti-pandemiche di distanziamento sociale, una milizia di estrema destra ha pianificato di rapire la governatrice democratica del Michigan, Gretchen Whitmer, ed eventualmente ucciderla.
Quando, l’8 agosto 2022, gli agenti federali sono entrati a Mar-a-Lago, per sequestrare documenti riservati sulla sicurezza nazionale indebitamente trasferiti nella residenza privata dell’ex presidente, Trump ha accusato l’FBI di aver piazzato prove false nella sua abitazione e il deputato Paul Gosar ha chiesto di “distruggere l’FBI”.
Tre giorni dopo, un uomo armato di AR-15 ha tentato l’irruzione nella sede del Bureau a Cincinnati ed è infine morto in una sparatoria con le forze dell’ordine. Gli investigatori hanno successivamente scoperto che su Truth, il social network di proprietà di Trump, aveva auspicato la guerra civile.
Per gli esperti siamo di fronte a casi di “terrorismo stocastico”: si incita, cioè, allusivamente ad atti di violenza casuale contro un obiettivo specifico, salvaguardando, allo stesso tempo, la possibilità di negare qualsiasi responsabilità diretta quando qualcuno passerà all’azione.
D’altronde, questo è stato fin dall’inizio il manuale con cui Trump ha sbaragliato le basse difese immunitarie dei media e della democrazia americana. È lo stesso candidato del 2015, quando, in corsa per le primarie, prometteva di pagare le spese legali a chi avesse picchiato i contestatori ai suoi comizi.
Il fatto che il sistema mediatico si allarmi per il rischio di una strumentalizzazione elettorale dell’attentato e abbocchi alla favola di un Trump spiritualizzato dalla mano divina che ha deviato la pallottola ci dice, in realtà, tutto della sua pregressa apatia nel riconoscere il carattere eversivo del trumpismo.
Viene da chiedersi cosa dovrebbero ancora dire i repubblicani perché i commentatori politici si scuotano, forse appellarsi al soccorso di una milizia armata privata ed evocare la guerra civile (anzi no, lo hanno già fatto).
Mentre veniva celebrata una fantomatica atmosfera di unità nazionale alla convention repubblicana, i delegati sventolavano cartelli con scritto “espulsioni di massa ora” e “basta col bagno di sangue di Biden al confine”. Lo stesso Trump non tratteneva la propria natura e ripeteva la bugia che i democratici abbiano commesso frodi alle presidenziali del 2020.
Il tentato assassinio sta, insomma, favorendo la rinormalizzazione del trumpismo e la rimozione della sua stretta relazione con la violenza. Secondo un rapporto stilato dal Brennan Center, dopo l’assalto al Campidoglio, il 43% dei legislatori locali ha subito intimidazioni e quasi la metà dei funzionari statali pensa di rinunciare alla ricandidatura.
Una tendenza che, su scala nazionale, ha trovato il suo picco nell’aggressione al marito dell’ex speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi – colpito con un martello da uno squilibrato e più volte deriso da Trump –, e nelle minacce di morte rivolte agli unici due repubblicani impegnati nella Commissione parlamentare sull’insurrezione del 6 gennaio, Adam Kinzinger e Liz Cheney.
In passato, Trump ha infatti chiesto di giustiziare per tradimento Mark Milley, l’ex capo di Stato maggiore; ha ricondiviso sui social il video di un pick-up di suoi sostenitori con un’immagine di Biden sequestrato e legato nel bagagliaio; ha messo in guardia da “morte e distruzione” se fosse stato incriminato per aver illegalmente comprato il silenzio dell’attrice hard Stormy Daniels; ha paragonato gli immigrati a un veleno per il sangue della nazione; ha promesso di “estirpare comunisti, marxisti, fascisti e radicali di sinistra che vivono come parassiti nel paese”; ha ripostato un’immagine in cui si pretende un tribunale militare in diretta televisiva contro Liz Cheney, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Il senatore Repubblicano Mitt Romney ha rivelato che alcuni senatori del suo partito, pur volendo votare per l’impeachment di Trump, hanno avuto paura per la propria incolumità e si sono quindi allineati al resto del partito.
Un attentato, per quanto ignobile e spaventoso, non ripulisce il trumpismo dal marchio della violenza, né gli conferisce il credito per una patente di moderazione, soprattutto se i suoi ideologi, come il presidente del think tank Heritag Foundation, Kevin Roberts, avvertono in modo inquietante che i conservatori sono impegnati in una “seconda rivoluzione americana, che resterà senza spargimenti di sangue se la sinistra lo permetterà”.
Gli americani si avviano, così, alle elezioni di novembre terrorizzati dalla prospettiva della violenza di una parte, tuttora ostinata nel rifiutarsi di riconoscere un’eventuale sconfitta, ma imbrigliati nella libertà di denunciarla.