Non tutti sono consapevoli che la popolazione degli italiani di origine italiana che vivono in Italia è tornata sui livelli della metà degli anni sessanta.
Alla fine dello scorso anno abitavano nella penisola 59 milioni di persone, oltre un milione sotto il picco del 2013, ma comunque due milioni in più rispetto alla fine del 2001. Di quei 59 milioni, oltre cinque erano stranieri e altri due erano immigrati che avevano acquisito la cittadinanza italiana tra il 2002 e il 2023.
I residenti italiani di origine italiana, escludendo quindi quelli naturalizzati, non raggiungevano i 52 milioni – appunto la dimensione demografica dell’Italia a metà degli anni sessanta (ma allora l’età media era più bassa di dodici anni).
Non è il risultato di un esodo di massa degli italiani dal Paese: dalla fine del 2001 sono emigrate soltanto 240 mila persone in più di quelle che sono rientrate. È invece l’esito della dinamica naturale delle nascite, in forte calo, e delle morti, in leggero aumento.
I demografi sono soliti ricorrere all’analogia dell’orologio di Alfred Sauvy (La population. Ses mouvements, ses lois, Presses Universitaires de France, 1957), secondo cui la demografia è come la lancetta delle ore che sembra immobile ma è la più importante, perché alla fine determina le trasformazioni storiche più profonde.
Se consideriamo che in Italia dal 2001 si sono succeduti dodici governi e si sono registrate tre durissime recessioni, oltre all’assai più modesta crisi dei primi anni duemila, i tempi della politica e dell’economia appaiono certo più brevi e spezzettati, più simili al movimento delle lancette dei minuti o dei secondi.
Per quanto seducente, l’analogia di Sauvy non deve però essere presa troppo alla lettera, come ci avverte il rettore della Bocconi Francesco Billari nel suo recente Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia (Egea, 2024).
Scrive Billari: “Non sempre la demografia – il cambiamento della popolazione – è un fattore esogeno, come un primo motore che alla lunga muta l’economia e la politica. Pur essendo particolarmente inerziale e adatta a disegnare segnali per il domani, la demografia non è affatto destino. La demografia di oggi è nata ieri, e viene influenzata proprio oggi, dall’economia e dalla politica. La politica può cambiare il corso delle nostre vite, con o senza l’economia”.
È un’avvertenza importante, da prendere sul serio quando si voglia riflettere sul senso dei pochi numeri riassunti all’inizio. Il primo elemento di fatto è costituito dalla dinamica naturale della popolazione. Ciò che rileva non è tanto l’aumento dei decessi che, escludendo il pesante effetto della pandemia di COVID-19, è una naturale conseguenza di una popolazione che invecchia: tenendo conto della composizione per età, il tasso di mortalità è da tempo su un trend discendente ed è tra i più bassi d’Europa.
È la caduta delle nascite il fattore che determina il declino demografico del Paese. I numeri sono noti: nel 2023 i nati vivi sono stati poco più di 379 mila, il valore più modesto dall’unità d’Italia, e il tasso di fecondità è sceso a 1,2 figli per donna, anch’esso quasi un minimo storico e ben lontano da quel 2,1 che garantirebbe la stazionarietà della popolazione nel lungo periodo.
Sono altrettanto note le possibili politiche che potrebbero contrastare questa tendenza, dalle misure per facilitare l’autonomia dei giovani e la conciliazione tra tempi di lavoro e impegni familiari alla fornitura di servizi pubblici per l’infanzia, agli strumenti di sostegno economico per i genitori e per i figli.
L’esperienza di altri paesi europei indica che una combinazione di queste politiche potrebbe funzionare, come spiega Alessandro Rosina in Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere (Vita e Pensiero, 2021). Perché dunque non sono state messe in atto, malgrado la grande attenzione per la famiglia e la natalità nel dibattito pubblico italiano?
Contano certamente gli stringenti vincoli del bilancio pubblico, che frenano l’adozione di provvedimenti necessariamente costosi. Vi è però anche un problema di volontà politica, storicamente più attenta agli interventi a favore delle fasce più mature e anziane della popolazione – abbastanza comprensibilmente visto il peso che esse hanno nel corpo elettorale.
Da questo punto di vista, l’introduzione dell’Assegno unico e universale per i figli, approvato all’unanimità dalle Camere nel 2021, spicca per la sua eccezionalità: sia perché ha razionalizzato le misure a favore dei figli, sostituendo detrazioni fiscali e quattro forme di assegni familiari, e le ha potenziate aggiungendovi cospicue risorse; sia perché ha rappresentato un passo importante verso l’universalismo, pur temperato dalla modulazione del sussidio in base al reddito, in un Paese che si è sempre mostrato poco incline a perseguirlo nelle politiche di assistenza economica.
Secondo le statistiche dell’Istat, nel 2022 l’Assegno unico ha complessivamente aumentato la spesa pubblica per il sostegno dei carichi familiari di quasi 5 miliardi di euro e ha contribuito a ridurre significativamente il rischio di povertà e la disuguaglianza dei redditi rispetto alla situazione preesistente.
È però improbabile che, nonostante la sua importanza, l’Assegno unico possa generare un’inversione nel trend delle nascite. Non solo perché le risorse sono probabilmente insufficienti, se confrontate con quelle impegnate in altri paesi europei, o perché permangono debolezze nei servizi per l’infanzia e nelle politiche di conciliazione.
Vi sono altri fattori, di natura non economica, che sembrano pesare sempre più sulle scelte riproduttive delle persone: mutamenti nelle preferenze individuali, cambiamenti nei modelli sociali e culturali, una crescente incertezza sui destini futuri, individuali e collettivi.
“Le motivazioni che spingono persone e coppie a limitare fortemente la prole, – commenta Massimo Livi Bacci in un saggio che apparirà sulla rivista Il Mulino – non dipendono granché dal contesto [economico, culturale, religioso, …] in cui vivono. Esse nascono da quello che potrebbe chiamarsi lo zeitgeist, lo spirito dei tempi, sfuggente e plastico, difficile da definire con indicatori concreti, come amerebbero fare i demografi e i sociologi”.
In ogni caso, anche un brusco aumento delle nascite non basterebbe a risolvere lo squilibrio generazionale nel medio periodo. Questo ci porta al secondo elemento fattuale nei pochi numeri iniziali. Durante questo primo quarto di secolo, la quota della popolazione straniera residente in Italia è cresciuta di quasi quattro volte arrivando al 9%, o a oltre il 12% se vi si includessero anche gli immigrati che in questo periodo hanno acquisito la cittadinanza italiana.
“L’Italia è de facto un paese di immigrazione, ‘senza una politica di immigrazione e senza una politica di integrazione degli immigrati’”, scrive Billari, parafrasando un rapporto ufficiale sulla situazione tedesca nel 1992. L’immigrazione è stata cruciale per compensare il declino demografico della popolazione italiana e colmare i vuoti che si andavano gradualmente creando nel mercato del lavoro. Il peso degli stranieri nell’occupazione totale supera oggi il 10%, ma sale al 14% tra gli operai e gli artigiani e al 29% tra il personale non qualificato (e sono valori che ovviamente non comprendono gli stranieri naturalizzati).
In un mercato del lavoro segmentato come quello italiano, in cui ampie sacche di non occupazione coesistono con difficoltà nel reperimento della manodopera, i lavoratori immigrati hanno per lo più coperto posti di lavoro di bassa qualità, meno accetti ai lavoratori italiani. Si è consolidato un rapporto di complementarità tra la manodopera nazionale e quella immigrata, che ha visto quest’ultima crescere soprattutto nella parte peggio retribuita dell’occupazione.
Secondo dati dell’INPS per il settore privato non agricolo, nel 2019 tra i lavoratori dipendenti che avevano una retribuzione settimanale appartenente al quinto meno pagato dell’intera distribuzione il 35% era nato all’estero, a fronte di solo il 7% nel quinto più pagato. Sono stime che riguardano solo la componente regolare dell’occupazione dipendente, quella con un contratto dichiarato all’INPS. Il quadro sarebbe ben più netto se vi fossero inclusi gli occupati irregolari e gli addetti dell’agricoltura.
Le condizioni sul mercato del lavoro, e i criteri di erogazione di molti trasferimenti sociali, si riflettono sugli standard di vita delle famiglie degli immigrati, assai inferiori a quelli degli italiani secondo tutti gli indicatori disponibili.
Nel 2022, tenendo conto delle differenze di composizione tra le famiglie, il reddito disponibile medio degli adulti stranieri era circa due terzi di quello degli italiani; l’incidenza della povertà assoluta, che è valutata sulla spesa per consumi, raggiungeva il 33,2% tra le famiglie di soli stranieri, il 18,9% tra le famiglie miste e il 6,3% tra le famiglie di soli italiani; era povero un bambino ogni 19 nelle famiglie di italiani del Centro Nord, uno ogni 7 nelle famiglie di italiani del Mezzogiorno e uno ogni 3 nelle famiglie con stranieri. Sono valori difficilmente compatibili con l’idea di integrazione.
Vi è una contraddizione stridente tra celebrare i successi raggiunti dalla squadra italiana agli ultimi campionati europei di atletica grazie ai molti giovani italiani che hanno, in parte o in tutto, origini straniere e tollerare gli inaccettabili livelli di sfruttamento della manodopera immigrata nelle campagne italiane, e non solo lì, che periodicamente tragici fatti di cronaca ci fanno (ri)scoprire.
Così come l’apporto degli immigrati è divenuto imprescindibile per il funzionamento dell’economia, altrettanto deve diventare centrale la questione della loro integrazione. Billari lo afferma con molta chiarezza: “L’integrazione di chi è già qui, sia dei nuovi migranti sia delle seconde generazioni deve poi diventare una priorità, a scuola come all’università, ma nella società in generale, in particolare insegnando la lingua italiana. Semplificando e incoraggiando, poi, l’accesso alla cittadinanza italiana”. Questo perché “oggi non vi sono altre opzioni demografiche”.
Nei numeri iniziali vi è un terzo importante dato, seppur un po’ nascosto, che è indicativo dell’intreccio tra declino demografico e andamento economico. Per quanto il saldo migratorio netto degli italiani verso l’estero nel periodo 2002-23 sia complessivamente stato di 240 mila persone, il quadro è assai mutato dal 2012.
Da quell’anno e fino al 2023, il saldo è stato costantemente negativo: in totale, a fronte di 700 mila rimpatri, sono emigrati 1,4 milioni di cittadini italiani. Per oltre la metà, erano giovani tra i 18 e i 39 anni, attratti dalle migliori opportunità di reddito e lavoro e, almeno in Europa, dalle più generose politiche familiari.
Se si considera per esempio la prospettiva di un giovane che voglia formare una famiglia, nel 2022, a parità di costo della vita, il reddito disponibile (quindi comprensivo dei trasferimenti sociali e al netto delle imposte) di una coppia con un bambino era in media più alto che in Italia del 19% in Svezia, del 25% in Francia, del 33% in Germania e di oltre il 40% in Austria e nei Paesi Bassi.
La propensione a lasciare il Paese appare già forte nei desideri dei più giovani: secondo una recente rilevazione dell’Istat, tra i ragazzi dagli 11 ai 19 anni più del 34% vorrebbe da grande vivere all’estero, una percentuale che supera il 38% tra i coetanei stranieri. Sia che queste aspirazioni derivino dalla curiosità e dal cosmopolitismo delle nuove generazioni sia che riflettano invece la percezione di una mancanza di opportunità in patria, l’emigrazione dei giovani non solo accentua il calo naturale della popolazione, ma lo fa indebolendola nella sua componente più dinamica.
Il ricorrere del termine “declino” accomuna la demografia e l’economia dell’Italia in questo primo quarto di secolo. Vi è, al fondo, un’insicurezza, un’incertezza su quale sia il destino del Paese nei prossimi decenni. È un dilemma che riguarda molti paesi in Europa, e non solo, ma che non manca di significativi tratti nazionali.
Forse è il tempo di una riflessione collettiva su quale equilibrio l’Italia voglia trovare tra vocazione industriale e sfruttamento del suo ricco patrimonio artistico e naturale, tra progresso sociale e difesa dei particolarismi, tra innovazione e conservazione.
E forse è il tempo di incidere su quei “rapporti d’appartenenza” stigmatizzati da Italo Calvino quasi cinquant’anni fa: “io sono io in quanto sono stato assunto dall’ente, in quanto sono iscritto al ruolo, all’albo, alla categoria”. Concludeva Calvino: “Non so quale possa essere la via per smuovere questa situazione. So solo che l’atteggiamento peggiore sarebbe d’accettarla come un’eredità naturale con la quale si tratta di convivere alla meno peggio”.
* Banca d’Italia, Dipartimento Economia e statistica. Le opinioni qui espresse sono mie e non riflettono necessariamente quelle della Banca d’Italia.