PICCOLA POSTA
Il leader di Italia viva sa avere opinioni lucide sugli sviluppi di palazzo, salvo quando riguardino lui. Ha detto che sarà la stessa premier ad anticipare sul voto per evitare di perdere il referendum costituzionale
Giovedì, dopo che Giorgia Meloni aveva deciso che i suoi votassero contro Ursula von der Leyen, ho pensato che la tentazione di anticipare le elezioni politiche stia rosicchiando i pensieri della presidente del Consiglio. Ma seguo malamente la politica italiana e non mi spingerei a condividere una mia previsione.
Il giorno dopo, ieri, Matteo Renzi, intervistato dal Corriere che voleva battere sull’abbraccio caldo con Schlein per un gol segnato in fuorigioco – risorsa che nello sregolato campo largo andrebbe considerata – alla domanda: “Il governo potrebbe cadere prima della fine della legislatura?”, ha risposto: “Sì. Sarà la stessa Meloni ad anticipare per evitare di perdere il referendum costituzionale e perché, se anche trova i soldi della legge di Bilancio 2025, sull’anno successivo è strangolata dai vincoli”.
Allora ci ho pensato su, perché Renzi sa avere opinioni lucide sugli sviluppi di palazzo, salvo che quando riguardino lui, e allora punta contro il muro, accelera più che può, e va a sbattere. Così appunto quando il referendum costituzionale riguardò lui (e Meloni, capita l’antifona, si è premurata di avvertire che non se ne andrebbe se lo perdesse, ma non è una garanzia sufficiente) o da ultimo quando è riuscito a tenere fuori sé e famiglia dal quorum per il Parlamento europeo.
Però la previsione di Renzi riguarda tempi lunghi, il ’25 e anzi il ’26, mentre la mia impressione è che Meloni possa rimuginare di rompere e andare al voto molto presto. Forse subisco l’influenza della voga di elezioni anticipate, in particolare quelle spagnole e quelle francesi, che hanno premiato l’azzardo di Pedro Sánchez e di Emmanuel Macron.
In ambedue le circostanze si trattava di sbarrare la strada in extremis all’avanzata dell’estrema destra. Dunque, a prima vista, il contrario che nell’ipotesi italiana. Solo a prima vista, però. Nel medio-lungo periodo l’avversario di Meloni è un rianimato centrosinistra. Nel breve è la sua alleanza.
Giorgia Meloni non ha abbastanza – scegliete: coraggio? lucidità? – non ne ha abbastanza per fare il passo che la trasformi in una leader liberal-conservatrice e, più difficile ancora, trasformi con lei la sua aspirante classe dirigente. Più che governare, fa l’opposizione all’opposizione.
Sa che il suo Grande Balzo avvenne grazie alla scelta di tenersi fuori dalla maggioranza del governo Draghi, intestandosi intera la rendita di astensioni deluse e arrabbiate e di voti spostati su un’ultima eventualità di cambiamento. L’eredità, in particolare, del rigonfiamento della Lega di Salvini, dilapidato in una sbornia.
E anche una buona quota della campagna qualunquista e demagogica condotta contro Draghi da un po’ di 5 stelle, che pure ci stavano accomodati, per il livore di Giuseppe Conte, defraudato dalla quaterna al lotto che l’aveva portato a presiederlo lui, il governo, anzi due. Scherzi da preti.
Ma i toni dell’underdog e la pretesa di combattere e procombere sola contro tutti anche quando si è tutti o quasi, hanno pressoché quotidianamente avvertito Meloni che il governo logora chi ce l’ha. Che al centro una Forza Italia del quieto vivere addirittura cresceva per inerzia.
Che il precipizio di Salvini, compreso il cerotto di Vannacci (tuttavia: il secondo per preferenze dopo di lei, italiani, A noi!) mette la Lega sull’orlo di mosse disperate e comunque esasperate – basta vedere come il magro bottino delle europee ha eccitato il rincaro di Salvini: corsa ai Patrioti, ripudio impudico dell’Ucraina, serenate a Trump.
E che mosse analoghe tentano Conte, il cui punteggio nei confronti di Schlein non fa che peggiorare, l’unica cosa che gli interessi; e del resto c’è un’inveterata simmetria fra i due, Conte e Salvini.
Perduta la possibilità di incarnare nitidamente l’opposizione in Italia, perché la recita mostra la corda, le restava l’Europa: là, mettersi teatralmente (all’ultimo minuto, eh!) fuori, e mettere fuori l’Italia, le dà l’illusione di poter riscuotere almeno una metà della rendita del governo Draghi.
L’illusione di rivendicarsi sola, se non altro perché tutti gli altri che hanno votato contro, estrema destra ed estrema sinistra e vanitosi obiettori di coscienza, sono tutti contro l’Ucraina. Forse funziona di nuovo. Ma la scelta (tormentata? è un’aggravante) di votare contro von der Leyen, ritenuta magari machiavellicamente capace di salvare capra e cavoli – Fitto la capra, i Patrioti i cavoli – fa ricordare, in luoghi e tempi di pace, la fermata di Prigozhin sulla via di Mosca.
La differenza fra Napoleone e uno sbruffone (Napoleone sì che doveva fermarsi sulla via di Mosca). E soprattutto sul futuro prossimo di Meloni sta l’orizzonte, così clamorosamente ravvicinato, della rielezione di Trump. Può darsi che Meloni non meriti un’accusa di imprudenza, e che fu Biden ad approfittare della differenza di statura per metterle una mano sulla testa come un re taumaturgo, e lei non poteva che fare buon viso a cattivo gioco. (E’ un caso in cui si sente una solidarietà: provate voi ad affrontare la fotografia ufficiale con Edi Rama).
Ma con Vox era stata lei, e così stentorea: era casa sua, aveva detto, e con che velocità hanno traslocato. In Francia, era stata lei, per smarcarsi da Salvini, o perché il dio acceca chi vuole perdere, ad associarsi con Zemmour, che dal fondo del barile in cui è caduto le rinfaccia di aver tradito i blocchi navali.
Con l’Europa aveva da far pesare la posizione sull’Ucraina: non le è sembrato abbastanza per entrare nella partita comune. Non era abbastanza? Il tempo non lavora per lei, anzi le si stringe addosso. Il discredito del suo governo e del suo entourage ha un’aria piuttosto inesorabile.
Le resta la personale popolarità.
Per quanto? Così a occhio, penso che l’idea di andare al voto prima che sia tardi passi, se non nei pensieri diurni di Meloni, e nemmeno nei sonni, ma almeno nel beccheggio che separa la veglia dal sonno, e il sonno dal risveglio.