di Sofia Viganò
Libri
«Quel piccolo bastardo ha passato metà della serata a raccontarmi tutti i suoi problemi: ho immaginato che il meno che potessi fare fosse raccontargliene un po’ dei miei»
(Donaldson Collection/Getty Images)
Come Marlon Brando andò su tutte le furie per colpa di Truman Capote
È il 9 novembre 1957 quando Il Duca nel suo Dominio (titolo originale The Duke in His Domain) viene pubblicato sul The New Yorker. Quello che oggi è un libro nasce infatti come una lunga e articolata intervista a Marlon Brando realizzata da Truman Capote.
Dopo aver letto l’articolo l’attore va su tutte le furie, si sente ingannato e insulta apertamente lo scrittore chiamandolo «piccolo bastardo». Capote però, che proprio santo non era, aveva fatto semplicemente il suo lavoro: ascoltare e farsi raccontare. Ma con uno stratagemma che poi segnò per sempre la sua cifra stilistica.
Truman Capote e Marlon Brando: un “testa a testa” spettacolare
Truman Capote e Marlon Brando erano coetanei, nati entrambi nel 1924. Quando si incontrano in Giappone sul set del film Sayonara ne ha 32 il primo, mentre il secondo ne ha appena compiuti 33, eppure si trovano in due momenti differenti della loro carriera: Truman è in ascesa ma non ha ancora pubblicato Colazione da Tiffany (1959, due anni dopo), il romanzo della consacrazione; Marlon è la stella più brillante di Hollywood “reduce” dal successo di film come Un tram che si chiama Desiderio, Bulli e Pupe e Fronte del Porto.
Leggenda narra che il giornalista e scrittore, prima dell’intervista, estrasse a sorte il nome di Brando fra una rosa di papabili star a lui non troppo care, così da poter mettere un po’ di distanza fra intervistato e intervistatore.
Ma come riportato dall’autrice della postfazione Gigliola Nocera: «L’impressione è che le circostanze di casualità così narrate siano solo un artifizio retorico». Vedremo poi perché.
L’arte di intervistare
«Il segreto», racconta lo stesso Capote «è far sì che l’altro pensi che sia lui a intervistarti. Tu cominci a raccontargli di te, e piano piano tessi la tua rete finché l’altro non ti racconta tutto di sé. Ecco come ho messo in trappola Marlon Brando».
E in effetti, leggendo l’intervista, non si ha mai la percezione di un vero scambio di battute, di qualcuno che legge le domande e di qualcun altro che risponde. Lo scritto si articola come una conversazione, una conversazione intima per di più, ed è questo che successivamente spiazzò l’attore convinto di fare quattro chiacchiere informali.
Anche perché, va detto, Truman stava già mettendo in pratica una tecnica: non prendere mai appunti durante l’intervista, una vera arte che giunse al sua apice con il libro A sangue freddo. Un’arte certo, ma non innata: lo scrittore infatti si allenò a lungo per raggiungere questa capacità mnemonica. Tutti i giorni si incontrava con un amico che gli leggeva un dialogo casuale tratto da un libro casuale. Il compito, una volta tornato a casa, era trascrivere tale scambio di battute.
Il Duca nel suo dominio: la spiegazione del titolo
A eleggersi “duca” è lo stesso Brando mentre racconta a Capote in che modo fa amicizia. «Ci vado molto cauto, ci giro intorno intorno. Poi un po’ alla volta mi avvicino… Loro non sanno cosa sta accadendo. Prima che se ne accorgano sono presi, avvinti, avvolti». E ancora: «Molte di loro sono persone che non si sono mai inserite da nessuna parte… Ma io intendo aiutarle, e loro possono puntare su di me: io sono il duca. Una sorta di duca nel mio dominio».
Parlarne fra amici
A leggere il libro viene però difficile credere alla casualità dell’intervista (il fatto che Truman avesse pescato il nome di Brando e blablabla). Il racconto è infatti costellato da salti temporali e di contesto dove Capote tira in ballo amici, parenti e collaboratori che svelano – direttamente a lui il più delle volte – aspetti e segreti di Marlon stesso. Il più divertente?
Quello in cui l’attore si rompe il naso durante un incontro di boxe. Ma anche qui, come per gli altri episodi raccontati è sempre l’attore ad aggiungere il dettaglio più segreto, il “non-detto” e il “non-da-dire”. Il tutto grazie all’astuzia di quel «piccolo bastardo».