Ci sono scrittori – in verità non molti – che fanno tremare i polsi a chi si accinge a scriverne.
Per la ricchezza, l’originalità e la profondità dei loro libri, ma anche per la loro varietà, per l’indissolubile intreccio tra vita e opere, e per la provocazioni delle loro riflessioni, capaci di mettere in crisi anche il lettore più convinto delle proprie idee, sicuro che siano sensate e radicate.
Joseph Conrad è uno di loro, insieme a pochi altri: Franz Kafka, Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Nathaniel Hawthorne, William Faulkner. Si potrebbero certamente fare altri nomi, oltre ovviamente a quelli che da sempre sono alla base di tutto: gli Omero e gli Alighieri, i Cervantes e gli Shakespeare, e i tanti autori della Bibbia e del Corano.
Perché dunque Conrad, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario della morte, avvenuta il 3 agosto 1924 a Bishopsbourne, nel Regno Unito, il suo paese elettivo? Di origini polacche, aveva trovato un’identità nuova e forte nell’Inghilterra vittoriana e nel buonsenso delle sue tradizioni, nella saldezza delle sue istituzioni, perché detestava le rivoluzioni, il loro disordine, la loro ferocia.
Per amore della vita e per gusto dell’avventura, ma all’inizio per necessità, fu marinaio in tante imprese e in tante parti del mondo, e al mare dedicò molti suoi libri, raggiungendo senza apparente fatica la grandezza di Melville. Ambientò le sue storie in diverse parti del mondo, un mondo di conflitti e brutalità, ingiustizie e rivoluzioni, detestando le prime ma non amando le seconde, di cui vide la violenza e le tentazioni autoritarie.
Scrisse capolavori su sfondi diversissimi tra loro, che comprendono L’agente segreto, un giallo antiterrorista (antianarchico, per la verità), che fu portato al cinema da Alfred Hitchcock e influenzò non poco i Maugham, gli Ambler e i Greene a venire; e il più grave dei romanzi di mare, Lord Jim (da cui un altro capolavoro cinematografico, di Richard Brooks e con la grande interpretazione di Peter O’Toole) il cui perno fu la convinzione – teorizzata in realtà da altri – che se si sbaglia un’esperienza, sarà molto difficile il successo di una seconda chance.
Al mare dedicò anche La linea d’ombra, che è la linea che divide la giovinezza dalla maturità (e che scegliemmo per una rivista dopo la crisi dei movimenti, negli anni ottanta, per tenerne vivi i ricordi, le lezioni, le eredità); e Il negro del Narciso, Nostromo, Un reietto delle isole, Tifone, Vittoria, eccetera.
Un racconto formidabile è Duello, contenuto nella raccolta Un gruppo di sei, da cui fu tratto un altro film assai bello. La storia mostra l’odio irrazionale e mortale di due giovani militari.
Ma non si finirebbe di citare, titolo dopo titolo, senza dimenticare ovviamente quel Cuore di tenebra, un capolavoro che spiegava bene gli orrori della colonizzazione europea in Africa e che avrebbe ispirato il grande film di Francis Ford Coppola Apocalypse now – opera pari a quella di Kubrick, Full metal jacket – che osò affrontare di petto l’orrore della guerra del Vietnam. Il film di Coppola seppe confrontarsi con Conrad nella parte finale e nel personaggio di Kurtz, affidato al genio istrionico di Marlon Brando (“L’orrore, l’orrore…”).
Insomma, la storia della letteratura come parte della storia della cultura e della storia in assoluto, non ha potuto e non può fare a meno di Joseph Conrad, che della storia diffidava conoscendone la ferocia, così come diffidava di quelli che la storia volevano cambiarla.
Scrittore “reazionario”, lo si sarebbe detto un tempo, senza sbagliare, ma di cui la storia, la nostra storia, di cui siamo volenti o nolenti il prodotto, non ha potuto e non può fare a meno, se vogliamo capirne i movimenti più profondi e gli effetti più radicali, più micidiali. Fu pari a Dostoevskij – a cui è più vicino, rispetto a Tolstoj – nell’analisi delle passioni umane e negli effetti della Storia con la maiuscola, “lo scandalo che dura da diecimila anni”, come ribadiva Elsa Morante.
Conrad è stato nel suo tempo il rivale diretto di Charles Dickens e del suo pur geniale e lucido buonismo. Pur senza arrendersi al male, sappiamo che il male è il mondo, e che non si può vincere. Sarebbe di estremo interesse leggere il parere di qualche grande teologo su Conrad: sulle sue idee del bene, del male, del destino umano e della storia.
Ma certamente va letto e riletto, e i suoi romanzi non possono che inquietarci come la prima volta che li si leggono. Inquietarci, provocarci, costringerci a fare i conti con i mali del mondo, della storia, dell’essere umano, della natura.
(Alamy)