I governi inseguono il consenso immediato e facile, mettendo da parte problemi e scelte importanti
Dobbiamo preoccuparci per lo stato della democrazia in Italia?
Un giudizio all’ingrosso non si può dare: è consigliabile passare in rassegna analiticamente aspetti positivi e negativi, e poi trarre un bilancio finale. La democrazia, in Italia, si declina al plurale: i cittadini possono scegliere liberamente i loro governanti locali, regionali, nazionali ed europei, e possono farlo optando per soluzioni diverse ai diversi livelli, e quindi attivando una produttiva dialettica tra gli enti, che possono autogovernarsi, dandosi indirizzi politici differenti l’uno dall’altro.
Ne beneficiano democrazia e pluralismo. In secondo luogo, c’è una sufficiente poliarchia, intesa come opportunità di opporsi ai detentori dei posti di governo, per cui tra i poteri si attivano conflitti (talora eccessivi): basti pensare a quelli tra politica e giustizia.
In terzo luogo, sono attivi contropoteri, come quello della Corte costituzionale, organo a composizione eterogenea (a differenza della Corte suprema americana), che non ha mai rinunciato al suo ruolo di attivo controllore delle leggi. Quarto: si è sempre fatta sentire la voce, talora più forte, altre volte più discreta, dei poteri neutri, a cominciare da quella del presidente della Repubblica.
Poiché — come ha dimostrato esaurientemente, di recente, Alessandro Mulieri (Contro la democrazia illiberale. Storia e critica di un’idea populista, Roma, Donzelli) — non esiste una democrazia illiberale, in quanto la democrazia è costruita sulle libertà, si può annoverare tra gli aspetti positivi della democrazia italiana il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, a cominciare da quella di manifestazione del pensiero e da quella di associazione.
Contro l’attivo del bilancio, c’è il passivo, a cominciare dalla partecipazione dei cittadini, che è andata decrescendo nel corso della storia repubblicana: i partiti, una volta potenti macchine di trasmissione della volontà popolare, hanno perduto iscritti e sono divenuti gusci vuoti, incapaci di una autentica democrazia interna e di presentare un’offerta politica consistente in programmi che convoglino la domanda politica popolare. Oggi, purtroppo, sull’arte del governare predomina l’arte del guadagnare voti, con la conseguenza che i rapporti tra interessi organizzati e governo non sono più filtrati dalla politica e che quindi prevale il corporativismo.
I poteri, al centro, non sono separati: il governo è diventato legislatore, e il Parlamento, che non è mai riuscito a svolgere il ruolo di controllore dell’esecutivo, si limita a convertire in legge i decreti del governo; la magistratura, che dovrebbe essere indipendente, è invece dappertutto, impegnata in ogni ruolo, normativo, esecutivo, di decisione, onnipresente nello spazio pubblico, incapace di coltivare le «virtù passive», con la conseguenza che non è più la least dangerous branch.
Il principio del merito, che dovrebbe assicurare al Paese una burocrazia imparziale ed efficiente, è rispettato a fasi alterne, con la conseguenza di politicizzare la macchina dello Stato e di diminuirne il tasso di epistocrazia (cioè la competenza).
Quanto ai diritti, vi sono aree nelle quali è troppo fitta la tela repressiva (così nei confronti degli immigrati, di cui l’Italia ha sempre più bisogno); aree nelle quali non è rispettato il criterio costituzionale del «senso di umanità» (così nei confronti dei carcerati); aree nelle quali i diritti civili di ultima generazione incontrano difficoltà ad essere riconosciuti; aree nelle quali il dissenso non è accolto con quel grado di tolleranza che una democrazia matura dovrebbe assicurare; aree nelle quali sarebbe auspicabile una maggiore distanza dalla politica dei partiti (così per le televisioni); aree nelle quali troppe sono le diseguaglianze o troppo grandi le disparità.
Il lettore avrà compreso che non tutti questi tratti della democrazia sono ascrivibili al disegno istituzionale, perché alcuni dipendono dai cittadini stessi (ad esempio, la scarsa partecipazione elettorale e politica in generale), e che meriti e demeriti non possono essere assegnati ad un solo governo (ad esempio, la penetrazione della magistratura all’interno degli altri poteri, le sue esondazioni, hanno almeno un quarantennio di vita e dipendono in parte dall’abbassamento delle garanzie costituzionali di immunità).
Provo a tirare le fila di questa rassegna di luci ed ombre.
La democrazia italiana merita un punteggio migliore di quello attribuitole dall’Economist Intelligence Unit, di 7,69 su 10, che la colloca tra le democrazie imperfette, al trentaquattresimo posto nella graduatoria dei 167 regimi esistenti al mondo. Ma questo non vuol dire che non sono necessarie correzioni, come quelle suggerite da Mario Monti, autore di un libro significativamente intitolato Demagonia. Dove porta la politica delle illusioni (Milano, Solferino 2024), in cui lamenta che i governi inseguono il consenso immediato e facile, mettendo da parte problemi e scelte importanti.
Il fatto è che a questa seconda trasformazione della democrazia italiana si è arrivati fin qui senza una direzione, senza la consapevolezza di uno scopo da raggiungere. In questa situazione, l’allarme lanciato da alcuni sulle riforme in corso, il premierato al centro e le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale (il cosiddetto regionalismo differenziato) in periferia, sembra eccessivo, anche perché non considera i benefici che da esse possono conseguire.