L’ansia da consenso che blocca Meloni in mezzo al guado (ildubbio.news)

di Mauro Bazzucchi

La presidente del consiglio continua a oscillare 
tra slanci liberali e ricadute populiste

“Di lotta e di governo”, si sarebbe detto un tempo, per i partiti che vogliono accreditarsi come forza responsabile, ma allo stesso tempo sono preoccupati di non recidere il cordone ombelicale con la propria vocazione protestataria originale e con la pancia del proprio elettorato.

Il problema, nella storia repubblicana, si è posto per più di un partito e negli ultimi anni i casi si sono decisamente infittiti.

Basti pensare al M5s dei due governi Conte, che nel giro di pochi mesi passò alle missioni di solidarietà per i gilet jaunes francesi al sostegno a Mario Draghi o alla Lega di Matteo Salvini, che teneva alto l’allarme securitario e allo stesso tempo sedeva al Viminale.

Ora sia Conte che Salvini contano di risalire nei sondaggi a discapito di Fratelli d’Italia, che essendo il partito di maggioranza relativa ed esprimendo la presidente del Consiglio si dovrebbe trovare naturalmente in una posizione più vincolata a livello istituzionale, sia sul piano nazionale che internazionale.

Dovrebbe, perché in termini pratici è proprio su questo fronte che si sta palesando l’ambiguità della linea portata avanti dalla presidente del Consiglio. Una linea fatta di oscillazioni, stop and go, iniziative talvolta di segno opposto, che dopo quasi due anni di guida dell’esecutivo ancora non consentono di dire quale sia la parabola da lei tracciata per FdI e la destra italiana non proveniente dalla tradizione liberale.

A spanne, sembra che Meloni sia guidata dall’ossessione di scongiurare il crollo di percentuali che ha riguardato Lega e M5s, cercando di conciliare elementi di conservatorismo liberale e altri chiaramente riconducibili al populismo e al sovranismo internazionale.

Lo schema è collaudato e reiterato, e visto il buon risultato per FdI alle ultime Europee la convinzione che questo funzioni deve aver prevalso nella mente della premier. Per cui, l’impressione è che si andrà avanti su questo doppio registro almeno fino a quando Meloni lo riterrà elettoralmente vantaggioso.

Sul fronte interno, accade che alla commemorazione dell’assassinio di Giacomo Matteotti si riconosca che quest’ultimo è stato ucciso da «squadristi fascisti» e poi però si attacchino i giornalisti per l’inchiesta di Fanpage che ha smascherato sacche di neofascismo e di antisemitismo all’interno dell’organizzazione giovanile del partito. Poi arriva il repentino dietro- front sotto forma di lettera indirizzata a via della Scrofa in cui si chiede tolleranza zero per i fascisti. Una vexata quaestio, quella del fascismo, che a causa delle reticenze finisce fatalmente per non abbandonare la presidente del Consiglio nemmeno

quando le polemiche nei suoi confronti appaiono forzate, come per le accuse lanciate alla “destra di governo” per la strage di Bologna da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione delle vittime. Qui una nota di Palazzo Chigi citava le sentenze che ne attribuiscono la responsabilità ai neofascisti.

Ma è sul piano internazionale che lo stare in mezzo al guado di Meloni rischia di essere severamente condannato dai fatti, perché l’ansia di non far perdere consenso a Fratelli d’Italia potrebbe non coincidere con i tanto sbandierati interessi nazionali, in questa fase di ricambio ai vertici dell’Ue.

Non è un caso che una delle testate ritenute meglio informate sulla politica comunitaria (“Politico”) abbia scritto che le ultime polemiche sollevate da Meloni sul Rapporto sullo Stato di diritto dell’Ue, con annessi attacchi ad alcune testate, che a loro volta hanno fatto seguito alla scelta di votare no alla rielezione di Ursula von der Leyen, stiano danneggiando l’Italia nella delicata trattativa per l’assegnazione a Roma di un commissario di peso.

Quando sembrava che a Bruxelles l’Ecr si stesse definitivamente emancipando dalla destra sovranista, tanto da votare assieme alla maggioranza attuale l’ufficio di presidenza dell’Europarlamento e ottenere una vicepresidente, è arrivato il no a von der Leyen, così come il no alla parte della mozione pro- Ucraina che condannava le iniziative diplomatiche di Viktor Orban. Incalzata dal trio Le Pen- Orban- Salvini, Meloni non ha resistito alla forza del cordone ombelicale della destra populista, con un supplemento di preoccupazioni apportato da ciò che sta succedendo negli Usa, dove Trump sembra andare verso la vittoria a grandi falcate.

E così, anche la visita ai giochi olimpici diventa una illustre vetrina per l’ambiguità meloniana: la presa di posizione contro il Cio per aver fatto gareggiare la pugile algerina Imane Khelif, che strizza l’oc- chio ai settori più conservatori e confessionali dell’opinione pubblica accordandosi con analoghe considerazioni fatte da Trump e dal portavoce di Putin che ha addirittura parlato di “perversione”.

“Ma anche” ( per dirla con Walter Veltroni) l’incontro col presidente francese Macron a margine del concorso ippico. Un primo banco di priva per capire se la scommessa meloniana porterà i suoi frutti o se inizierà a mostrare la corda sarà, come detto, la scelta del commissario Ue che spetta all’Italia. Poi, ci sarà da impostare una manovra finanziaria con poche risorse e col ritorno dei vincoli di bilancio europei. In quest’ultimo caso, i numeri mal si concilieranno con la strategia del “doppio forno”.

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