Per Giorgia era da abolire, per Elly un’opportunità: le giravolte sull’Autonomia (corriere.it)

di Antonio Polito

Ieri e oggi

Le contraddizioni trasversali nel conflitto sulla riforma

Prendere in castagna i politici italiani è un gioco fin troppo facile. Perfino Miss Coerenza, Giorgia Meloni, ha abbondantemente frequentato «la contradizion che nol consente».

All’alba di Fratelli d’Italia, nel 2014, per esibire le radici antifederaliste della sua eredità post-missina, firmò personalmente un disegno di legge per abrogare l’articolo della Costituzione che prevede l’Autonomia differenziata; e anzi, già che c’era, proponeva di cancellare del tutto le Regioni e pure le Province, per creare 36 nuove «regioni/province», tra cui quella del Tanaro e dell’Etruria.

La bislacca idea, un po’ da Strapaese, rimase ovviamente sulla carta.

Ma non è che Elly Schlein se la passi meglio, in materia. Poco più di due anni fa, quando era vicepresidente dell’Emilia-Romagna, il suo governatore Bonaccini scriveva sul sito della conferenza Stato-Regioni: «L’Autonomia differenziata è una opportunità prevista dalla nostra Costituzione che noi vogliamo cogliere».

E poi aggiungeva: «Abbiamo avvertito bene il rigurgito centralista in questi anni, anche nel mio partito». Intimava perciò al governo Draghi, con l’assenso della sua vice presumiamo, «di assumere un’iniziativa per non rendere questa l’ennesima proposta di un percorso inconcludente». Poi al governo ci andò il centrodestra, e il Pd pensò che era meglio se il percorso restava inconcludente.

Del resto inconcludente lo era da un ventennio e più, da quando cioè con un audace blitz parlamentare il centrosinistra del tempo cambiò la Costituzione («A colpi di maggioranza», direbbe oggi Elly Schlein, con soli nove voti di scarto) e introdusse nel Titolo V la possibilità per le Regioni di chiedere la gestione in esclusiva di 23 materie, cioè la famosa «Autonomia differenziata».

Naturalmente Meloni, Schlein e Bonaccini oggi direbbero che no, non hanno cambiato idea loro, sono le circostanze ad essere cambiate; che i progetti di prima non erano buoni mentre quelli di adesso sì, o viceversa. Ma la sostanza è quella: hanno cambiato idea.

Anche i governatori non scherzano. Brillante il caso della famiglia Occhiuto. Dunque: c’è un Occhiuto 1 che fa il presidente della Calabria di Forza Italia e che ora chiede a gran voce di sospendere tutto, di fare una «moratoria», per assicurarsi che il Sud non paghi un prezzo troppo alto (anche se appena qualche mese fa approvava il progetto in Conferenza Stato-Regioni come una straordinaria opportunità per il Sud).

E c’è un Occhiuto 2, il fratello senatore di Forza Italia, che ha votato a favore in Parlamento. E meno male che sono occhiuti: pensate se fossero stati miopi…

La possibilità. La riduzione delle materie «regionali» eviterebbe al Paese un’inutile battaglia

Ma d’altra parte anche la «corrente del Golfo» della sinistra meridionale era federalista. Vincenzo De Luca, uomo dalle convinzioni tetragone, nel 2019 mandava addirittura alla ministra leghista Erika Stefani, e per conoscenza al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, «una proposta di intesa sull’Autonomia differenziata della Campania».

Se ne trova ancora il testo ufficiale sul sito della Regione: «Abbiamo chiesto al ministro di firmare quanto prima: da oggi — concludeva fiero De Luca — alle tre regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ndr), si aggiunge la Campania come Regione che ha formalizzato la proposta d’intesa».

Si potrebbe continuare. Ma perché maramaldeggiare se, come abbiamo scritto, con i nostri politici si vince facile? Per una sola ragione: e cioè per indurre tutti costoro che si mostrano oggi così decisi, così sicuri delle loro posizioni da essere pronti a condurre il Paese in una battaglia referendaria Sud contro Nord, o viceversa se preferite, a ripensarci: se si ricorda loro che un tempo non troppo lontano la pensavano ben diversamente, magari rinunciano alla postura marziale e cercano un compromesso. In fin dei conti, in materia di forma della Repubblica, non sarebbe così disdicevole.

La destra dice che a spaccare il Paese è il referendum, non la riforma. E se ne duole. O almeno se ne duole Zaia, mentre Salvini, il suo leader, sembra invece fregarsi le mani, ansioso di menarle nella campagna referendaria (dal che si capisce che l’Autonomia fa bene solo all’unità della Lega, perché tiene insieme due come Salvini e Zaia che la pensano diversamente su tutto).

Il governatore del Veneto lamenta che dalle stesse bocche dell’opposizione si accusa l’Autonomia di essere «una scatola vuota», e insieme di «spaccare l’Italia». Sembra anche questa una contraddizione. Ma in effetti, com’è oggi, la legge Calderoli rischia di essere entrambe le cose: poco arrosto (non c’è il federalismo fiscale, bisogna aspettare i Lep, ci vorranno anni…) ma moltissimo fumo. Di battaglia.

E chissà se alla sinistra in realtà non interessi proprio la battaglia, molto più che il suo esito: ammesso che sia ammesso il quesito, per fare il quorum al referendum dovrebbe portare alle urne un milione di elettori in più di tutti quelli che hanno votato alle Europee, cioè 14 milioni in più di quelli che hanno votato per l’opposizione.

Un tempo i referendum si disinnescavano cambiando la legge su cui erano stati chiesti. Il centrodestra potrebbe ancora farlo: riducendo le materie della possibile devoluzione (escludendo i temi addirittura sovranazionali come le reti energetiche, o squisitamente nazionali come l’istruzione); limitando a 5/6 quelle su cui una Regione può chiedere, per la sua specificità, una legislazione esclusiva, invece delle attuali 23 che sembrano una secessione; stabilendo una clausola di supremazia dello Stato centrale in casi di emergenza.

Avrebbe il merito di evitare al Paese un inutile conflitto, per quanto deliberatamente cercato dall’opposizione.

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