di Mario Lavia
Fuffa d’Italia
La premier che all’inizio veniva raccontata, anche a sinistra, come “la fuoriclasse” della politica non ne indovina una. Dopo la figuraccia sul 2 agosto, la famosa connessione sentimentale tra “Giorgia” e il Paese scricchiola
C’è stato un momento, un lungo momento, in cui alcuni esponenti della sinistra, dell’intellettualità progressista, diverse immancabili grandi firme democratiche, specie giornaliste, hanno dato un certo credito a Giorgia Meloni. Salutando il ritorno alla politica, anzi, alla Politica, dopo le presunte mestizie della stagione dei tecnici e del renzismo arrembante e “traditore”.
Giorgia era “la fuoriclasse”, brava, capace, preparata, una cresciuta in un partito vero (in realtà un gruppo chiuso nelle ubbìe del fantasy bellicoso degli Hobbit e nel rancore minoritario).
Ebbene, questa retorica modaiola sta sfiorendo al solleone di questo strano 2024 e soprattutto sotto le lezioni della realtà. Così che adesso molti estimatori di ieri sulle loro terrazze romane hanno preso a detestarla, Giorgia. Recuperando l’antifascismo dei bei tempi di quando si era tutti giovani e belli e di sinistra.
La sinistra, tutta la sinistra, avvertendo che il melonismo è solo una versione aggiornata della politica reazionaria – e pure di livello bassino –, non dà più un’oncia di credito a questi qui. Non che a livello di partiti dell’opposizione ci fossero mai stati dubbi sull’alterità a questa destra (anche la bubbola su Matteo Renzi pronto all’accordo con Meloni era appunto una bubbola).
Ora è ulteriormente chiaro che lei non è la nuova politica. E forse non è nemmeno tanto brava. Uno che lo aveva capito dall’inizio è Pier Luigi Bersani. Per lui la polemica sul 2 agosto è definitiva: «Sulla strage di Bologna c’è una saldatura tra verità storica, politica e giudiziaria. Se una persona non è in grado di riconoscerla non merita il rispetto degli italiani».
Non è la solita critica. Stavolta il fossato tra il Partito democratico, primo partito dell’opposizione, e il presidente del Consiglio è particolarmente ampio perché mette in causa «il rispetto» dell’Italia, non solo di Bologna che ogni 2 agosto diventa l’alfa e l’omega della dignità ferita di tutto il Paese, il simbolo della più grande offesa alla coscienza di un popolo – o della Nazione, come usa dire adesso.
Bersani non è un uomo che parla a caso. Se la mette in quel modo è perché avverte che nell’aria c’è qualcosa di nuovo. Sente che la famosa connessione sentimentale tra la premier e il Paese – ad eccezione della sua “famiglia” – scricchiola, il credito dell’opinione pubblica non della “famiglia” è finito, cancellato.
L’esternazione della presidente del Consiglio sulla strage di Bologna non ha solo rinfocolato la polemica sull’album di famiglia e sugli inestricabili nodi psicopolitici che saldano la storia nera alle esperienze politiche successive, compresa quella di Fratelli d’Italia, nodi simboleggiati dalla figura politicamente torva di Ignazio La Russa. No, la questione è ancora più seria. Di portata istituzionale.
Ha torto Giovanni Orsina quando sulla Stampa scrive che «le sentenze giudiziarie non sono verità divine» perché tutti possono mettere in dubbio le sentenze. Tutti, tranne la presidente del Consiglio e le altre apicali cariche istituzionali.
Ieri è stato uno dei meloniani più concitati, Federico Mollicone, a dire papale papale quello che la premier pensa e non può dire, che «le sentenze sono un teorema per colpire la destra», frase non solo grave in sé ma che involontariamente conferma il nesso tra la destra stragista e la destra in generale.
Di fatti, Fratelli d’Italia e la sua leader delegittimano la magistratura che da anni indaga sul ruolo dei neofascisti nell’eversione degli anni Settanta-Ottanta. Questo è il punto. Ora, questa nuova frattura tra Meloni e la sinistra, ma più in generale con il mondo antifascista, avviene peraltro in concomitanza con altri forti attriti politici e diremmo soprattutto culturali.
L’intervento della premier nella controversa vicenda della pugile algerina Imane Khelif con tanto di carezze alla sua avversaria italiana Angela Carini non è consono al ruolo di presidente del Consiglio né tantomeno dovuto e ha fornito copertura politica a un’operazione para-culturale fomentata dalla Russia e appoggiata esplicitamente da Donald Trump, che ha definito Khelif «un uomo» esattamente come aveva fatto la meloniana Augusta Montaruli, quella condannata per aver comprato un giornale porno coi soldi pubblici.
Una vicenda dunque che conferma lo slittamento di Meloni verso la reazione mondiale che si era già in buona parte espressa con il voto contro Ursula von der Leyen. E anche sulla politica estera Giorgia ce la siamo giocata.
Il tutto in un’estate in cui gli italiani prendono il treno senza sapere quando arriveranno – qui sì che c’è discontinuità col fascismo – e la “brava”, “abile”, “preparata”, la “fuoriclasse” Giorgia Meloni sempre più evoca l’ennesima fuffa politica italiana.