di Lorenzo Cremonesi
L’analisi
I 30 mesi di conflitto e le reazioni «irrazionali» dello zar
Ancora una volta, Vladimir Putin viene spiazzato dagli sviluppi della guerra in Ucraina. L’offensiva delle truppe scelte di Kiev nella regione di Kursk ha colto lui e i suoi generali di sorpresa. Si erano illusi di essere prossimi alla vittoria, guardavano fiduciosi alle lente avanzate nel Donbass, contavano sulla stanchezza europea nel sostegno a Zelensky e magari nella vittoria di Trump a novembre.
Ma, da 5 giorni, si stanno preoccupando di difendere la zona del gasdotto per l’Europa e adesso temono che le truppe nemiche possano raggiungere la grande centrale nucleare di Kurchatov, 70 chilometri dal confine ucraino, uno dei centri nevralgici che fornisce energia alla Russia meridionale. «Putin è furioso. Si è beccato un potente schiaffo in faccia, che ha un enorme valore simbolico», osservano i commentatori della Chatham House di Londra.
Dobbiamo guardare con attenzione a quest’ennesima vampata di frustrazione del dittatore russo. Abbiamo già visto in questi 30 mesi di guerra che, tutte le volte che è stato messo con le spalle al muro, la sua retorica minacciosa sul ricorso alle armi nucleari si è fatta particolarmente virulenta. Joe Biden nella primavera del 2022, quando le truppe russe si erano appena ritirate dalla regione di Kiev con la coda tra le gambe, inaspettatamente battute dalla volontà di resistenza ucraina, aveva definito Putin «un leader razionale che si è sbagliato e adesso deve rivedere i suoi piani».
Ma, da allora, abbiamo appreso che la «razionalità» di Putin umiliato ha forti limiti e viene soverchiata dalla sua biografia di ex dirigente del vecchio Kgb sovietico determinato più che mai a vedere rinascere la Russia imperiale. Il signore del Cremlino — lo Zar che da un quarto di secolo tiene le redini del potere e ha cambiato tutte le regole interne pur di non andare in pensione, ha messo in carcere, ucciso e fatto sparire oppositori politici, giornalisti critici e chiunque intralciasse i suoi piani — non si fermerà.
Ogni battuta d’arresto lo vedrà rilanciare più determinato di prima, anche a costo di stringere alleanze con regimi criminali come la Corea del Nord, abbracciare la teocrazia sciita iraniana e tramare con le mafie organizzate su scala internazionale.
Adesso la sua retorica torna a rispolverare uno dei punti forti della sua ideologia tesa a magnificare quelli che considera i momenti più fulgidi della storia nella «grande guerra patriottica» contro la Germania hitleriana. Putin ha ordinato alla sua macchina della propaganda di ricordare la battaglia di Kursk nella Seconda Guerra Mondiale. In verità, non c’entra nulla.
I mille o duemila soldati ucraini penetrati martedì all’alba in Russia dalla regione di Sumy con un centinaio di mezzi corazzati non sono certo paragonabili al gigantesco scontro tra l’Armata Rossa e l’esercito tedesco consumatosi in quelle pianure tra il 5 luglio e il 23 agosto 1943.
Allora furono coinvolti 6.000 carri armati, due milioni di uomini, 4.000 aeroplani: è considerata «la più grande battaglia tra tank della storia». Il parallelo è assolutamente fuori luogo. Eppure, serve a Putin per ricordare a lui stesso e a tutti i russi che loro sono le forze del «bene» contro il «male» occidentale e il «neonazismo del regime di Zelensky».
Dopo le frustrazioni, le delusioni e le rabbie del primo anno di guerra (quando era certo di vincere in poche settimane e si trovò sulla difensiva), seguite dalle ansie via via placate nel 2023, dal febbraio 2024 si era sentito rassicurato. Ora non più, le incertezze del conflitto tornano a gettare ombre scure sul futuro.