Mosca cieca
Il Cremlino non era preparato per un attacco nella regione di Kursk e non è riuscito a garantire una copertura aerea efficace, permettendo così a Kyjiv di eseguire l’incursione con successo.
I russi ora dovranno distogliere risorse e attenzione dal fronte principale in Donbas, esponendosi a ulteriori attacchi
In tre giorni gli ucraini hanno occupato trecentocinquanta km2 di territorio: più di quello che in sei mesi i russi sono riusciti a conquistare in Donbas, al prezzo di circa centomila morti. Il Cremlino è stato preso di sorpresa dall’offensiva ucraina verso Kursk: ci sono voluti ben due giorni affinché elaborasse le «linee guida» per la copertura giornalistica dell’incursione. Lo rivela Meduza, citando contatti in Russia con «due persone che lavorano nel settore».
Queste «raccomandazioni urgenti» mettono innanzitutto in guardia dal discutere troppo sull’apertura di un «nuovo fronte» nella cosiddetta operazione militare speciale.
A riprova del fatto che la sorpresa sta comunque creando confusione, l’ordine di non fare sensazionalismo va però assieme all’incoraggiamento a confrontare i combattimenti in corso nella regione di Kursk con la battaglia di Kursk della Seconda Guerra Mondiale, che fu la più grande battaglia nella storia della guerra e un punto di svolta decisivo nel grande duello dell’Urss contro la Germania nazista.
Nel contempo, è stato detto ai media di non menzionare una potenziale avanzata delle truppe ucraine verso la città di Kurchatov, che ospita la centrale nucleare di Kursk, al fine di prevenire il panico pubblico su una «minaccia nucleare». Dal momento che non è che i media internazionali ne stessero parlando diffusamente, dà l’idea di una colossale cosa di paglia su ciò che più il Cremlino sta temendo in questo momento.
In compenso, il Cremlino ha chiesto ai media di riferire sui presunti «successi» dell’esercito russo nell’assalto di Kursk, sottolineando che le truppe ucraine sono state fermate prima di avanzare in profondità nella regione.
Invece di menzionare potenziali minacce alla centrale nucleare di Kursk, i notiziari dovrebbero concentrarsi sulle vittime civili negli attacchi dell’esercito ucraino agli insediamenti russi, in particolare sui bambini feriti e uccisi. Secondo i dati ufficiali, almeno nove bambini sono stati feriti nell’operazione Kursk.
L’amministrazione Putin ha inoltre incaricato i media di promuovere storie di interesse umano che enfatizzino temi di «unità e solidarietà», come rapporti sulle campagne di donazioni di sangue e campagne per fornire rifugio ai rifugiati dell’area di Sudzha. I politici del Cremlino specificano che questi rapporti dovrebbero essere vividamente descrittivi, non «aridi» e basati sui fatti.
I media dovrebbero anche assicurare al loro pubblico che sono disponibili ampie sistemazioni temporanee per le persone sfollate da Sudzha. Questa copertura dovrebbe concentrarsi sulle visite del governatore ad interim Alexey Smirnov ai rifugi e agli ospedali dove vengono curati i civili feriti: secondo i dati ufficiali, cinque civili sono stati uccisi nell’incursione dell’Ucraina nella regione di Kursk e altri 21 sono rimasti feriti.
Il Cremlino ha incaricato i giornalisti di sottolineare gli «enormi sforzi di risposta» dei funzionari federali, in particolare del presidente Putin, che «non abbandoneranno nessuno nel bisogno». Ma, appunto, queste linee non sono arrivate nelle redazioni fino a giovedì pomeriggio, dopo un intervallo di due giorni in cui anche l’Ucraina stava zitta e a dare notizie erano allarmatissimi blogger militari russi: favorevoli alla guerra, ma da sempre durissimi contro il modo in cui è condotta.
Ci sarebbe da chiedersi se direttive del genere non siano state impartite anche a giornalisti e influencer «amici» fuori dalla Russia, dal momento che molti commenti insistono sull’«azzardo ucraino» e sul fatto che una tale offensiva sarebbe insostenibile.
L’Economist dà l’esempio di una narrazione diversa secondo la quale sì, l’incursione presenta i suoi rischi, ma comunque il dimostrare a Putin che non è neanche in grado di mantenere il territorio nazionale rappresenta per lui uno schiaffo in faccia formidabile, e dalle conseguenze potenzialmente dirompenti.
Uno dei più noti storici italiani esperti di Europa Orientale, Federigo Argentieri ci dà di questo «azzardo ucraino» una duplice interpretazione politica. «Prima di tutto, l’atttacco è venuto nell’anniversario dell’attacco russo alla Georgia del 2008, che avvenne pure mentre erano in corso Olimpiadi, e che secondo gli ucraini fu il chiaro inizio di quel neo-imperialismo putiniano che avrebbe poi finito per investire l’Ucraina. Poi, è un momento in cui sia a Washington che a Bruxelles ci sono al potere anatre zoppe. Zelensky una volta tanto può agire senza perdere tempo a chiedere defatiganti autorizzazioni».
Una analisi militare ce la dà invece Roberto Casalone: esperto in Scienze Strategiche e Geopolitica che da ufficiale dell’Esercito Italiano ha comandanto unità in operazioni di peacekeeping e peace enforcing in Albania, Kurdistan, Somalia, Ruanda, Timor Est, Iraq e Afghanistan, e dopo essere passato alla sicurezza civile nel 2019 ha anche fornito programmi addestrativi tecnici a truppe ucraine impegnate nel Donbas.
«L’incursione ucraina in territorio russo è significativa da un punto di vista strategico, oltre che ovviamente da un punto di vista di immagine», spiega. «Da notare, intanto, la posizione, sulla carta geografica, della regione di Kursk, sufficientemente lontana dalla linea di contatto in Donbas, ma sufficientemente equidistante dalle arterie che portano alla capitale.
Poi, da notare, la composizione delle unità ucraine. Un piccolo numero, con circa milleduecento uomini in tutto, assortito tra reparti interarmi, composto da fanteria meccanizzata su Ifv Marder e Bradley, plotoni da ricognizione su Hmmmv Humvee ma armati di missili anticarro, un plotone di carri T64bv e un gruppo Tlc con un radar di controbatteria».
Tornando indietro nella storia, Casalone ci spiega che in questo formato è un complesso di forze creato nella Seconda Guerra Mondiale dalla Panzerwaffe tedesca. «Si chiama Kampfgruppe. Da noi viene chiamato Gruppo Tattico: lo so perché ho avuto il privilegio di comandarne un paio». Ma le sue origini risalgono addirittura alla Guerra di Successione Spagnola e al principe Eugenio di Savoia, con un Kampgruppe costituito da cavalleria, archibugieri, granatieri e una batteria di cannoni da campagna, con relative salmerie.
«Doveva muoversi in fretta, spostarsi sul campo di battaglia, intervenendo dove serviva e, soprattutto, doveva essere capace di colpire il nemico, spesso superiore di numero ma più lento o statico, nei suoi punti deboli. Nelle sue campagne contro gli Ottomani e contro i Francesi, il Principe Eugenio fu maestro di questa tattica e, insieme al suo gemello diverso ideale, Sir John Churchill, Duca di Marlborough, inflisse una sconfitta epocale alle truppe del Re Sole a Blenheim, cambiando il corso della storia in Europa.
Nel secondo conflitto mondiale, i tedeschi, soprattutto tra il 1944 e il 1945, inferiori per forze e serrati sui due fronti dagli Alleati, utilizzarono con grande inventiva e capacità la logica dei Kampfgruppen, ottenendo successi clamorosi e spesso insperati, come nella prima fase della Battaglia delle Ardenne e, in primo luogo, sul fronte orientale contro i russi».
Dunque, «l’abile mossa odierna dell’alto comando ucraino, preparata da una lunga e meticolosa ricognizione in profondità, non dovuta al tradimento interno, come blaterato da Mosca, ma frutto di una cosa che in termini militari si chiama “Deep Recon“, ha sparigliato le carte al fronte, aprendo una falla in un dispositivo difensivo russo impreparato a una penetrazione in profondità di circa venticinque km, e privo di reparti idonei al contenimento».
Secondo questa analisi, «i russi hanno sbilanciato le forze per una pressione costante in Donbas, dove, intelligentemente, gli ucraini si difendono su linee progressive stratificate e, quando contrattaccano, lo fanno su piccoli obiettivi locali, con operazioni di local harassment, volte a rosicchiare le magre conquiste territoriali russe, ottenute con enormi perdite, per fiaccare ancora di più l’attaccante, che quindi è obbligato a tornare alla carica, ma con forze esauste e logistica ridotta, forzandolo a buttare nella mischia ogni nuovo arrivo senza il tempo di amalgamare i reparti.
Così, il fronte di Kursk, è difeso solo da un velo di forze, oggettivamente di seconda schiera, per cui è stato necessario correre ai ripari e spostare di corsa unità di artiglieria e aviazione tattica per respingere gli ucraini, che in realtà, non solo non sono stati respinti, ma si sono presi il tempo per riposizionarsi ancora su nuove coordinate, obbligando quindi i russi a ulteriori spostamenti».
Si sono dunque utilizzati plotoni da ricognizione avanzata su Humvee «perchè è un mezzo veloce, robusto, duttile, può essere armato con missili I-Tow in grado di fare a pezzi qualunque blindato russo a media-lunga distanza, basso, facile da mimetizzare e con un’ottima autonomia e, sulle strade russe e ucraine possiede una mobilità superiore a quella dei vecchi modelli ex sovietici».
Si sono usati carri T64BV e non i mezzi donati dagli occidentali «perché una puntata offensiva in territorio nemico prevede il fattore sorpresa. Un colpo di mano deve essere rapido e generare confusione. Se si utilizzano mezzi che utilizza anche il nemico, si guadagnano secondi preziosi in caso di contatto con il nemico. Infatti i carri ucraini si sono mossi senza le usuali grandi scritte colorate coni colori nazionali sugli scafi e sulle torrette, come usano in patria per evitare rischi di fuoco amico».
E allora perché usare i Bradley e i Marder tedeschi? «Perché, al contrario dei carri che hanno compiti di rottura iniziale, essi devono garantire la sopravvivenza delle fanterie imbarcate e possedere una potenza di fuoco tale da poter distruggere i mezzi omologhi avversari, senza far sprecare munizioni ai carri armati. I russi infatti utilizzano ancora i vecchissimi Bmp, Btr e Mt-Lb, tutti veicoli degli anni Settanta, vere e proprie trappole mortali per gli equipaggi e i soldati a bordo»
Insomma, «si scopre così che la Russia è vulnerabile in casa propria, su direttrici stradali enormi e rettilinee e, caso strano, proprio nello stesso punto dove l’esercito personale di Evgenij Prigozhin stava marciando su Mosca. Se nel caso del patron della Wagner fu uno strano connubio di camarille di palazzo a fermarlo, in questo caso, è lecito credere che se solo gli ucraini avessero potuto disporre di elicotteri anticarro e copertura aerea tattica, forse, e dico forse, avrebbero potuto anche osare molto di più.
Ma fortunatamente, il generale. Syrs’kyj non è uno stupido e non si è fatto trascinare nella trappola mediatica del suo predecessore Zaluznyi che, pressato da opinione pubblica nazionale e non, giornali, tv, gruppi di potere e politici ha invece lanciato una controffensiva primaverile che non ha ottenuto vantaggi significativi ma, in compenso, ha bruciato buona parte dei nuovi aiuti alleati in sterili confronti statici in mezzo a enormi campi minati nella zona peggiore del paese dove condurre operazioni meccanizzate senza la superiorità aerea.
Non dimentichiamo che Syrs’kyj viene proprio dal comando di una unità meccanizzata, la 72° Brigata Meccanizzata e che si è perfezionato all’ Ausbildungszentrum Panzertruppen a Munster. Vale a dire, il Mit dei carristi».
Il segnale lanciato a Mosca, dunque, è secondo Casalone chiarissimo. «L’incubo peggiore di chi invade o attacca per primo, penetrando in territorio nemico con incosciente baldanza, è sempre quello di essere attaccati, sui fianchi o alle spalle, da un nemico che si credeva bloccato da un’altra parte.
Esattamente quello che capitò alla Terza Armata Egiziana nella Guerra dello Yom Kippur, aggirata e tagliata in due da una puntata offensiva veloce delle Ugda, Gruppi Tattici corazzati, israeliane in territorio egiziano, varcando il Canale di Suez.
Solo il cessate il fuoco, imposto da Stati Uniti e Urss, fermò il collasso dell’esercito arabo, che pure fino a quel momento era riuscito ad avanzare nel Sinai, vittoriosamente, travolgendo in un primo tempo le forze israeliane».
Casalone cita Sun Tzu: «fai credere al nemico di essere dove invece non sei, colpiscilo invece dove tu sei, ma egli non può vederti». E osserva che «nell’era delle guerre moderne è quasi suicida attaccare con dei reparti meccanizzati senza possedere, e mantenere il controllo dei cieli sul campo di battaglia, tranne il caso che tutti e due i contendenti non posseggano un’aeronautica militare.
Questa è la prova che la Russia non è più una potenza militare come qualcuno si ostina a far credere. Alla ormai mitica frase “Shoigu, Gerasimov, dove sono le mie munizioni?”, se ne potrebbe aggiungere ora, un’altra: “Dove sono i miei aerei?”. Dopo la sconfitta in mare, contro un nemico privo di marina militare, ora anche l’umiliazione, in casa propria, di subire un’avanzata nemica senza poterla contrastare dal cielo».
In conclusione, «la Russia dovrà pensare bene a come muoversi, perché per contrattaccare e riprendersi il terreno perduto devono muovere grandi concentramenti di uomini e mezzi nella regione di Kursk e servono mezzi efficienti e uomini validi, non rimpiazzi raffazzonati, che sarebbero carne da macello in poche ore.
Per averli laggiù, Mosca deve toglierli da altre parti, dove adesso servono invece, e deve fisicamente spostarli, servono carburante, mezzi di trasporto, ferrovie, tutte cose che costano tanto, e impediscono così di avanzare in Donbas.
Gli amichetti iraniani, adesso, hanno ben altri grilli per la testa e non possono, o non vogliono, inviare aiuti concreti, perché servono a loro altrove. Kim Jong-un sa bene che non gli conviene esporsi più di quanto abbia già fatto finora. La lista dei fornitori finisce qui. Forse, stavolta, un rimpasto di generali non basterà più».