Il problema, non emergenziale ma strutturale.
È poco censito e affligge oltre il 40% dei detenuti
Nel dibattito ricorrente sulle condizioni nelle quali la popolazione carceraria è condannata a sopravvivere c’è sempre un convitato di pietra: il disagio mentale. L’emergenza psichiatrica negli istituti di pena – che colpisce i reclusi ma si riflette su direttori, agenti, funzionari giuridico-pedagogici, personale medico e volontari – è presenza incombente ma invisibile, che tutti conoscono ma che pochi nominano.
Per molti analisti, esperti e politici, l’argomento è tabù perché, a 11 anni dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e di fronte all’agonia delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – che ne hanno preso il posto –, nessuno o quasi sa cosa fare.
Eppure, nel manuale del 2009 sui detenuti con bisogni speciali, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, ha identificato a livello mondiale otto gruppi di detenuti con bisogni speciali motivati da una situazione di particolare vulnerabilità: al primo posto ci sono quelli con bisogni (al plurale) di assistenza psichiatrica.
Poco o nulla è cambiato negli ultimi anni. Anche perché – nella rimozione del problema che non è emergenziale ma strutturale – molto incide il fatto che le statistiche per i detenuti con bisogni di assistenza psichiatrica non sono raccolte in modo sistematico.
E così nessuno sa in realtà quanti siano i reclusi con disagio mentale e psichiatrico e il loro tasso di gravità. Nell’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione si legge che il disagio mentale è maggiore tra le donne che tra gli uomini.
Le recluse con diagnosi psichiatriche gravi rappresentavano, negli istituti visitati dall’Associazione, il 12,4% delle presenze, contro il 9,2% della rilevazione complessiva. Le donne che facevano regolarmente uso di psicofarmaci rappresentavano il 63,8% delle presenze, contro il 41,6% complessivo.
Può, dunque, quel dato complessivo – 9,2 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti – essere attendibile? Assolutamente no, perché se così fosse – su una popolazione che oggi oscilla intorno alle 61mila presenze contro una capienza massima di 51.234 posti – ci sarebbe poco o nulla da preoccuparsi. Invece – come ricorda Antigone – «sta diventando un carcere di matti».
Le Aziende socio-sanitarie – che dovrebbero gestire l’area sanitaria negli istituti – raramente assumono o convenzionano psichiatri a tempo pieno e sfuggono alle diagnosi migliaia di casi. L’aleatorietà di alcune statistiche, di fronte alla nuda realtà, è testimoniata anche da quanto scrive il magistrato Roberta Palmisano – ex direttore dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – nel n. 3 del 2015 di «Rassegna penitenziaria e criminologica». Palmisano ricorda che uno studio che coinvolse sei regioni sui bisogni di salute di 16mila detenuti (1/3 della popolazione penitenziaria di allora) rivelò che il problema della salute mentale affliggeva oltre il 40% dei detenuti.
I numeri, dunque, dicono poco se non hanno alla base sistematicità, impegno continuo nella raccolta, capacità di analisi e progettualità, oltre alla realizzazione delle strutture previste, la formazione degli operatori, l’ingresso di figure preparate (e non che siano agenti o funzionari giuridico-pedagogici ad affrontare le patologie) e sponde politico/sociali.
È ancora il lavoro di Antigone – nell’aggiornare le schede dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione – a svelare le troppe falle del sistema. Leggiamo cosa dicono quelle di Bolzano e Reggio Calabria. Nord e Sud.
Partiamo da Bolzano. Alla voce “Numero settimanale complessivo di ore di presenza degli psichiatri” la risposta è «non disponibile». Stessa risposta alle voci “Quante persone presentano diagnosi psichiatriche gravi?” e “Persone con diagnosi psichiatriche gravi”. Infine, non esiste un’articolazione per la salute mentale o un reparto per i detenuti con infermità psichica.
Nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria, il Reparto di osservazione psichiatrica, che prevede al massimo la presenza di 5 detenuti, è stato definitivamente chiuso e in attesa di lavori di ristrutturazione per spostarci alcuni ambulatori.
È ora che il convitato di pietra diventi visibile a tutti. A partire dalla politica.