di Paolo Mieli
Noi e Zelensky
Vatti a fidare dell’Italia come alleato.
A fronte dello sconfinamento ucraino in territorio russo, l’Europa con una dichiarazione ufficiale ha sentenziato: «L’Ucraina ha diritto ad attaccare il nemico ovunque lo ritenga necessario». Gli Stati Uniti, tramite il portavoce del dipartimento di Stato, Matthew Miller, ha detto più o meno la stessa cosa: «Spetta all’Ucraina decidere in merito a questa offensiva». Pur se poi l’ha esortata a non spingersi troppo «oltre il confine».
L’Italia se n’è apertamente dissociata ed è la prima volta che accade dall’inizio della guerra. Come prima cosa il nostro ministro della Difesa Guido Crosetto ha ribadito che mai arma italiana avrebbe sparato un sol colpo al di là del confine che divide l’Ucraina dal Paese invasore.
E fin qui niente di nuovo, restiamo nel tradizionale ipocrita distinguo tra uso «difensivo» e uso «offensivo» delle armi fornite alla resistenza ucraina. Tra l’altro le nostre dotazioni, a quel che se ne sa, non sono tali da essere prese in considerazione per un’offensiva del genere di quella attuata da Zelensky in territorio russo.
Tant’è che lo Stato maggiore di Kiev, sempre a quel che risulta, non ne ha predisposto l’impiego. Il ministro si poteva fermare qui. Però, invece, ha ritenuto di aggiungere che «nessun Paese deve invadere un altro Paese». Mettendo così implicitamente sullo stesso piano le due «invasioni», quella russa e quella ucraina.
H a poi aggiunto che siccome, a parer suo, «il conflitto diventa ancor più duro se si sposta sul territorio russo», l’attacco in direzione Kursk «allontanerà sempre di più la possibilità di un cessate il fuoco». In altre parole, l’Ucraina non ha affatto il diritto di attaccare il nemico (come sostengono Usa ed Europa) «ovunque lo ritenga necessario» ma deve combattere soltanto entro i propri confini. Altrimenti l’Ucraina si rende colpevole d’aver impedito ogni prospettiva di pace. La prossima volta si dirà che Zelensky, pur di mantenersi al potere, vuole che la guerra continui all’infinito.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, con voce flebile, si è accodato. Matteo Salvini, come era prevedibile, ha esultato riproponendo la messa in discussione dell’intera politica di invio di armi a Kiev. Una parte pur minoritaria del Pd — Quartapelle, Guerini, Sensi — s’è allarmata per questo cambio d’abito del ministro.
Con l’ironia che non gli manca, il costituzionalista Michele Ainis ha suggerito a Crosetto (sul Fatto quotidiano ) di fare un passo ulteriore e proporre alla Nato l’invio di F16 alla Russia «invasa» dagli ucraini. In funzione difensiva, beninteso. E nel rispetto della seconda parte dell’articolo 11 della Costituzione.
In tutto ciò, Giorgia Meloni, ha lasciato trapelare, per la consueta via delle note ufficiose, un borbottio di disapprovazione nei confronti del ministro. Ma le note di Meloni sono a tal punto ufficiose che non si capisce se il dissidio tra la presidente del Consiglio e il ministro sia o meno un gioco delle parti.
In realtà, per uscire da tutto ciò che ha un sentore d’ipocrisia, va detto che ad ogni evidenza la missione di Zelensky in terra russa appare come qualcosa di più di un contrattacco per colpire le basi da cui partono i micidiali missili che colpiscono mercati, centrali elettriche e ospedali ucraini.
Sembra tendere piuttosto all’occupazione di un’area (al cui interno si trova anche una centrale nucleare) da poter barattare proprio per creare le condizioni di un cessate il fuoco. Ad esempio, con quella di Zaporizhzhia la centrale nucleare contro la quale i russi si stanno ancor oggi accanendo.
Ammesso (e non concesso) che gli ucraini riescano nell’intento che è chiarissimo a Putin, l’operazione di Kursk — a differenza di quel che sostiene Crosetto — potrebbe dunque render possibile una trattativa di pace. Per questo Europa e Stati Uniti, pur intravedendone i rischi dal momento che non hanno dimenticato l’esito della controffensiva dell’estate scorsa, non l’hanno ostacolata.
A questo punto va detto, anche qui senza ipocrisie, che un’alta carica dello Stato quale è il ministro della Difesa dovrebbe prestare attenzione, grande attenzione, all’uso dei verbi e delle parole.
C’è una bella differenza tra chi «invade» un Paese per occuparlo (o comunque tenersene una parte consistente a tempo indefinito) e chi ne varca i confini per colpire le postazioni da cui provengono i missili che da due anni e mezzo provocano distruzioni e morti. O — se è verosimile l’ipotesi che abbiamo formulato — per avere qualcosa da «restituire» al fine di poter conservare una porzione di terra che appartiene all’Ucraina e che ancora non è stata del tutto conquistata dal nemico.
Lasciar intendere che si tratti di due «invasioni» equiparabili o comunque giudicabili con lo stesso metro non è leale.
Per di più farlo in questa maniera, laddove Europa, Gran Bretagna (ieri con una risoluta dichiarazione del premier Keir Starmer) e Stati Uniti assumono posizioni nettamente diverse, è l’ennesima dimostrazione che l’Italia dà prova, nei momenti difficili, di non essere un alleato affidabile. Per carità, Crosetto non è il primo e, temiamo, non sarà l’ultimo a tirarsi indietro quando all’orizzonte si intravede il rischio di sconfitta. E sarebbe un’ingiustizia far pesare sulle sue spalle un giudizio così severo sull’affidabilità del nostro Paese. Ma è pur vero che in momenti come questi da un piccolo dettaglio si vede di che stoffa sono fatte le nostre classi dirigenti.
Purtroppo, quasi sempre la stessa.