di Gian Antonio Stella
I figli dei migranti
Sono passati quindici anni da quando Lihao Zhang vinse il premio di poesia in dialetto lumbard di Voghera con «La paciada» (la scorpacciata) sul sogno fatto dopo essere stato spedito a letto senza cena:
«Ghera una tavula / con tanti rob preparà / piat ad roba bona, / tut in bela vista / salam, antipast / pulastr e insalada…». Ventotto dal premio «Al Zempedon» per il dialetto bellunese vinto da Fang Xu con «An fià par on».
Quei bimbi cinesi che parlavano dialetto meglio di tanti figli nostri son oggi adulti. Eppure la politica, sulla cittadinanza ai figli degli immigrati, è ancora spaccata.
Di qua quelli che cocciutamente insistono sullo ius soli puro per dare il diritto automatico al passaporto a chi nasca sul territorio nazionale come accadeva nel 1948 in metà dei Paesi del mondo (47%) e oggi solo negli Usa (ammesso che Trump non vinca) e parte dei Paesi americani. Di là quanti cocciutamente negano la necessità di cambiare la legge base del ‘92.
Pensata, scritta e votata trentadue anni fa in un contesto immensamente diverso da oggi. E centrata sullo ius sanguinis. Con strascichi. Comprese certe forzature tipo l’idea di allargare la cittadinanza ai nipoti dei nipoti emigrati fino alla quinta generazione. Col risultato che il bresciano Mario Balotelli o la padovana Paola Egonu per diventare italiani han dovuto attendere di compiere i 18 anni e il brasiliano Jorginho, che tra i 16 trisnonni ne ha uno di Lusiana, diventò subito capitano degli azzurri.
Ma ha ancora senso dopo aver tutti esultato alle Olimpiadi (tolto Vannacci, ovvio, per tigna) davanti alle fantastiche ragazze d’oro del volley che intonavano felici, mano sul cuore, il «loro» Inno di Mameli (a partire dalla sicula-lombarda di genitori ivoriani Myriam Sylla che Sergio Mattarella chiama affettuoso «la mia concittadina») questo scontro testardo fra opposte e inconciliabili visioni del problema che paralizza da decenni ogni confronto?
È cambiato tutto, intorno. E come hanno (inutilmente?) spiegato Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio «L’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale», moltissimi Paesi hanno cambiato le loro vecchie regole per adattarle a sistemi più flessibili. Un dato per tutti: i Paesi col sistema misto (si chiami «ius scholae» o «ius culturae» o «ius soli temperato») sono passati dal 12% a quote sempre più ampie. Soprattutto in Europa.
Poi, certo, ogni Paese si regola a modo suo. C’è chi riconosce la cittadinanza come Francia, Paesi Bassi, Spagna e Lussemburgo, col sistema del «doppio ius soli» ai bimbi d’origine straniera figli di immigrati nati a loro volta già nel territorio nazionale e chi preferisce esigere più che il luogo di nascita, dagli aspiranti cittadini, il loro coinvolgimento nei valori culturali del Paese scelto. C’è chi vuole uno o due cicli scolastici, chi pretende da due a otto anni di residenza regolare…
Scelte diverse via via proposte negli anni in Parlamento da sinistra (Laura Boldrini, Matteo Orfini, Giuseppe Brescia…) o da destra (Renata Polverini) ma sempre finite in un cul-de-sac. Con una parte della sinistra a chiedere lo ius soli puro sventolando il drappo rosso in faccia al toro leghista e la destra decisa a non mollare un millimetro.
Il tutto a prescindere dall’opinione degli italiani che secondo il Report Ansa «I migranti visti dai cittadini», diffuso nel 2012, non erano affatto ostili. Il 38,2% pensava bastassero cinque anni di residenza, il 10% riteneva che ce ne volessero dieci. Ma, diceva il sondaggio, il 72,1% era «favorevole al riconoscimento della cittadinanza a chi nasce in Italia».
Il tutto nella scia di una consapevolezza chiara due millenni fa agli autori dello Huainanzi, un’opera cinese nel II secolo avanti Cristo che parlava dei popoli dell’Impero di mezzo: «Quando presso gli Êrmâ, i Di o i Bodi nascono bambini, urlano tutti allo stesso modo. Ma una volta cresciuti non sono in grado di capirsi neppure con l’interprete. (…) Ma prendete un bimbo di tre mesi, portatelo in un altro Stato e in futuro non saprà neanche quali costumi esistono nella sua patria». Non è il luogo di nascita né il cognome o le fattezze fisiche a plasmare un cittadino: è molto di più.
Né la pensa diversamente Papa Francesco, figlio di emigrati in Argentina, che pur evitando di scendere nelle beghe politiche italiane a Natale del 2017 sottolineò così l’evento straordinario di Betlemme: «Maria e Giuseppe, per i quali non c’era posto, sono i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza».
Un tema rafforzato giorni dopo invocando «una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale». Non fu data questa opportunità, del resto, ai nostri nonni in Sudamerica come ha ricordato giorni fa Sergio Mattarella a Rio? «Il Brasile dà una lezione di civiltà non soltanto con l’accoglienza e crescita sociale ai migranti, ma anche con la capacità di saper fare e rendere suoi cittadini persone venute da tante parti diverse del mondo. Tutti brasiliani, autenticamente e orgogliosamente brasiliani, pur venendo da altri Paesi».
Possibile che non si trovi un accordo anche tra avversari su questo tema centrale? Come spiegarono uomini diversi come Hannah Arendt, Helmut Kohl o Nelson Mandela, il compromesso non è necessariamente un punto basso della politica. Anzi.
Il compromesso, scrive Norberto Bobbio, non è affatto l’opposto della moralità. Nelle società democratiche, è una virtù, perché permette di conciliare interessi diversi e trovare un equilibrio tra posizioni contrastanti». Può essere nobile, un compromesso.
Del resto cosa dice l’adagio? Il meglio è nemico del bene. E il peggio è la palude.