di Giovanni Sallusti
Apprendiamo che Chiara Valerio, scrittrice, curatrice editoriale e intellettuale di riferimento di Elly Schlein (o forse è lo schleinismo che è la variante politica del “valeriolismo” letterario), ha lavorato con Nanni Moretti.
L’occasione era il soggetto del dimenticabile Mia madre (2015), ma la mente ci è corsa al frammento obiettivamente indimenticabile di Palombella Rossa in cui il Nanni/Michele Apicella urla in faccia alla giornalista vacuamente radical: «Ma come parla?! Come parla?! Le parole sono importanti!». Ce lo siamo improvvisamente raffigurato, che sbotta con analoga perentorietà, di fronte all’intervista-fiume rilasciata dalla Valerio al Corriere della Sera. Il tema della conversazione noi sempliciotti non siamo riusciti a individuarlo, ma in fondo è irrilevante. Quel che conta, appunto, sono le parole, la lingua, o meglio la neo-lingua, di una delle principali animatrici dell’odierna fiera della vanità pseudoculturale.
E anche dialogando col Corrierone, Chiara non ha deluso i cultori del dadaismo verbale (noi sempliciotti la inquadriamo ancora come la “supercazzola” di tognazziana memoria). Si parte disquisendo di premi letterari (la nostra è stata finalista allo Strega col romanzo C’è chi dice e chi tace, due categorie rispetto a cui l’autrice sovente si colloca nel mezzo), ma lei chiarisce subito: «Non sono una che va spesso ai premi, perché è sfiancante. Da anni faccio la spola tra Roma e Venezia, se posso riposo». Sono i drammi del sottoproletariato urbano, così lontani dall’infanzia nella provincia laziale: «Più che librerie, intorno a me avevo le edicole, luogo magico perché accanto ai classici c’erano riviste come Skorpio, dove il soft porno si mescolava allo steampunk». Ma come parla?! Non sappiamo, in ogni caso non va molto meglio col pensiero: «Quindi io non credo agli steccati tra letteratura alta e bassa».
Ci mancherebbe, l’adolescenza di chi scrive è stata tutt’altro che snobistica verso i generi indicati dall’augusta scrittrice (specie il primo), eppure, forse, il marchese De Sade rimane mezzo gradino sopra. Si salta poi alla rievocazione dell’amicizia con Michela Murgia, la quale «ha rivelato un mondo quando ha detto che la vera famiglia è quella queer». Segue rilettura in tre righe dell’evoluzione storico-antropologica italiana. «Prima degli anni ‘60 e ‘70 le famiglie erano un insieme di madri, padri, zie acquisite, parenti che non lo erano per legami di sangue ma per cura e frequentazioni» (insomma, l’Italia del Dopoguerra come una Comune hippy). Dopodiché, e qui dai figli dei fiori saltiamo direttamente ai nipoti psichedelici, «è arrivata una forma di edilizia abitativa che ha deciso che la famiglia mononucleare doveva stare nei bilocali». Finalmente è chiaro: la famiglia eterosessuale, patriarcale e reazionaria è il risultato di un complotto dei costruttori edili. Ma è a ruota di una delle poche botte di lucidità («Non uso lo schwa»), che Valerio scalza definitivamente il Conte Mascetti/ Tognazzi nell’ars supercazzolara. La domanda è «un linguaggio che non ferisca nessuno è un’utopia?», la risposta di seguito. «Sì, lo spazio di fraintendimento è necessario, quello che non è fraintendibile non porta desiderio, quindi non porta scambio».
Fin qui, pare la sintesi di una serata etilica tra Michelangelo Antonioni e lo psicanalista sotto casa. Ma è sul prosieguo del ragionamento (chiediamo scusa a Socrate) che ci perdiamo definitivamente: «Se noi possiamo essere trascrivibili in maniera linguistica, vuol dire che la nostra identità è trasferibile in una macchina. Siamo la prima generazione con inclinazione passiva di fronte al linguaggio e alla verifica dei fenomeni». A prenderla in parola (impresa che richiederebbe la pazienza di Giobbe, o ancora meglio lo stordimento alcolico di Bukowski), sembriamo piuttosto la prima generazione con inclinazione incendiaria «di fronte al linguaggio».
Quanto alla «verifica dei fenomeni», rischiamo di arrivare in fondo alla lettura che dubitiamo della nostra esistenza di esseri senzienti, figuriamoci del mondo esterno. Per uscirne, ci aggrappiamo alla divagazione politica. Dice Chiara che le fiere letterarie «ormai hanno preso il posto delle grandi adunate politiche». Ok, ecco una tesi chiara, con la minuscola. Un po’ meno la spiegazione: «Berlusconi ha trasformato lo spettatore in elettore». Ecco perché «ci sembra spesso che i piani, quello politico e quello dello spettacolo, coincidano». Vorremmo obiettare che Kennedy vinse le elezioni contro Nixon per pura performance televisiva nel 1960, un po’ prima del berlusconismo. Ma, esausti, chiudiamo il Corriere e andiamo alla disperata ricerca di quei pornosoft abbandonati da qualche decennio in un cassetto, di gran lunga lo spunto migliore offertoci da Chiara.