La corsa a evitare la realtà (corriere.it)

di Ferruccio de Bortoli

I conti, la politica

Il cambio di stagione, quest’anno, è anche un cambio di paradigma economico.

Non bisognerà solo fare una legge di Bilancio ma anche, e soprattutto, impegnarsi — per osservare il nuovo Patto di Stabilità — con un piano pluriennale di riduzione della spesa primaria, scadenza 20 settembre, di cui non parla nessuno.

Ed è curioso che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ospite del meeting di Rimini, dia l’impressione di aver subìto le nuove regole, giudicate di «corto respiro», dimenticando che le ha trattate lui e le ha firmate il governo di cui fa parte. Se possiamo esprimere una piccola richiesta, sarebbe più onesto non mettere più in discussione, per soli fini di consenso interno, i compromessi europei. Come fossero piovuti dal cielo.

Se sono stati, anche faticosamente sottoscritti, vanno rispettati e difesi. Se li si contesta allora si ammette una sconfitta politica. Grave. Stupisce poi che siano proprio le forze più risolutamente contrarie a ogni forma di austerità ad averla, una volta al potere e giocoforza, dovuta attuare.

Successe anche con il governo gialloverde del Conte 1 che, dopo aver oscillato, con involontaria comicità, tra un 2,4 per cento e un 2,04 di deficit per il 2019 alla fine realizzò un disavanzo di appena l’1,5. Giovanni Tria, allora ministro dell’Economia, come Quintino Sella.

Siccome la parola è bandita dal vocabolario (l’unica vera austerità la fece, sull’orlo del precipizio, l’esecutivo Monti) non ci aspettiamo che venga usata in questa occasione. Anche se la «discesa ardita», dal 7,2 per cento di deficit del 2023 al 3,7 atteso per il 2025, secondo il quadro tendenziale del Def, sarebbe ipocrita non considerarla impegnativa e inedita.

Allora concentriamoci su altre definizioni e vezzi che hanno sempre caratterizzato — anche con governi di diverso colore — la tradizionale discussione autunnale sulla legge di Bilancio. Immancabile la presenza del cosiddetto «tesoretto» che questa volta compare grazie al buon andamento delle entrate fiscali (più 13 miliardi nei primi sei mesi). Un’espressione ingannevole. Dà la sensazione che si possa spendere di più.

E uno Stato che si avvia ad avere 3 mila miliardi di debito pubblico, non si può più permettere, come un tempo, queste fughe dalla realtà. Del resto la storia insegna che tutte le volte in cui si è pensato di riservare una somma alla riduzione del debito la si è trasformata magicamente in un «tesoretto» da destinare alla spesa corrente.

È accaduto con i proventi delle privatizzazioni e anche con i risparmi di spesa per interessi creati dalla riduzione dei tassi d’interesse e dagli acquisti della Bce. L’altra pessima abitudine è quella di avanzare delle proposte senza copertura, salvo affidarsi a crescite miracolose, che esistono solo sulla carta, o immancabilmente al recupero dell’evasione fiscale. In procedura d’infrazione europea non possiamo fare altro deficit, solo ridurlo.

E allora sono da considerare serie solo le idee sostenibili. Le altre sono una presa in giro. Dovrebbero essere ritenute nulle. Ma consentono purtroppo a chi le avanza di poter dire al proprio elettorato: noi ci abbiamo provato ma i cattivi sono altri che hanno priorità diverse. E, curiosamente, spesso stanno in maggioranza. Sono, in definitiva, proposte che non hanno copertura finanziaria ma purtroppo conservano un dividendo politico non trascurabile seppur moralmente discutibile.

Un’altra deriva ormai pluriennale è quella che potremmo racchiudere nella formula «riforme per le allodole», nel senso che alcuni provvedimenti funzionano come i proverbiali specchietti. Tommaso Nannicini segnala su La Stampa quei provvedimenti di natura puramente simbolica ma con così tante eccezioni da ridurne la portata e, di conseguenza il costo. L’effetto è però generale.

Con la manovra per il prossimo anno si dovranno trovare le risorse per confermare il taglio del cuneo fiscale, gli sgravi Irpef, decidere il destino di alcune misure in scadenza sul tema delle pensioni (quota 103, Ape sociale, opzione donna). Secondo l’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, ci vogliono almeno 18 miliardi.

E allora ci si chiede, visto che siamo a un cambio non solo di stagione, ma a un salto di paradigma dell’intera politica economica, se sia ancora serio e responsabile, proporre misure temporanee, buttando ottimisticamente la palla un po’ più in là, con un piano di rientro dal deficit e dal debito di presumibile durata settennale. E ancora se ci si possiamo permettere una quantità di sussidi fiscali( tax expenditures ), di cui si è persa anche la contabilità.

Secondo l’Upb sono 625 e sottraggono gettito per 105 miliardi. Molti vorrebbero tagliare quelle meno socialmente importanti. Se non ora, quando? Le nostre prospettive di crescita sono legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza e al suo successo.

La frase di Giorgetti al meeting («sembra un piano quinquennale sovietico») è sicuramente una battuta. Ma è indice di una sorta di estraneità culturale, chiamiamola così, rispetto alla filosofia di fondo del Pnrr che si manifesta a vari livelli, soprattutto nella maggioranza.

Troppe condizioni, troppi controlli, tempi stretti e soprattutto scomode riforme vere, più concorrenza. Dimentichi del fatto che ci sono prestiti ma anche sussidi e non siamo più contributori netti dell’Unione europea. Come a dire che se ci avessero lasciati liberi, noi avremmo fatto sicuramente meglio. Davvero?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *