Panzane e bandiere
Dalla bufala dei cinquecento morti provocati da un bombardamento di Israele su un ospedale fino alle requisitorie parlamentari contro i sabotaggi della tregua, c’è da chiedersi se questo atteggiamento sia più gradito all’israeliano medio o al medio macellaio del 7 ottobre
Elly Schlein era già una impegnatissima europarlamentare quando, il 17 luglio 2014, l’Unrwa – l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi – doveva manifestare tutto il proprio sconcerto (sì, ti saluto) comunicando di aver trovato una propria scuola imbottita di razzi pronti per il lancio sui civili israeliani.
Una decina d’anni dopo, il 17 ottobre 2023, segretaria e splendida quarantenne, l’avremmo ritrovata a reclamare pace e «due popoli, due Stati», e a condannare il bombardamento di un ospedale: ciò che, come è noto, non solo è contro il diritto internazionale ma, soprattutto, imperdonabilmente confligge con il principio che qui una volta era tutta campagna.
A dieci giorni dai massacri, dagli stupri e dalle deportazioni del Sabato Nero – che ovviamente «erano da condannare» – quella plenipotenziaria della sinistra seria non trovava di meglio che farsi ventriloqua dell’ufficio stampa di Hamas, il quale aveva inseminato le sensibilità democratiche di ogni ordine e grado con la notizia falsa dei cinquecento morti fatti da Israele bombardando – «deliberatamente!», come urlava il diffuso sottufficialato Pd – quell’ospedale.
La cara creatura era a La7, e non si poteva certo pretendere che il conduttore, abituale reggimicrofono di Dibba e Davigo, segnalasse che la bufala appariva per quel che era – una bufala – già per come era data, con quei cinquecento morti contati uno per uno a circa tre minuti e mezzo dal botto.
E figurarsi avvisare che già mezz’ora dopo cominciava a insorgere la mole himalayana di prove contrarie e cioè che non era stato un attacco israeliano e che i morti erano qualcosa come dodici volte meno.
Dice: vabbè, ma l’avevano scritto tutti. No: l’avevano scritto gli amanuensi di Hamas. E quella panzana era l’esordio alla grande di una guerra comunicazionale che senza sosta avrebbe accompagnato l’altra, quella fatta di razzi e ostaggi giustiziati, la realtà sistematicamente messa ai margini della società democratica adunata a invocare il ripristino della pace compromessa dall’oltranza israeliana, mica dal formicaio di tagliagole nei tunnel né – macché – dalla pioggia di confetti che rallegrava la Galilea.
Erano i colonnelli e le colonnelle di quella medesima segretaria, il nerbo fremente di quel partito serio, a presidiare Rafah coi cartelli «ceasefire on Gaza now», senza il tempo per analoghe trasferte in Libano, nello Yemen, in Siria, in Iran, i posti dove non è il caso di fare sit in e agitare striscioni «ceasefire on Israel».
Erano i capimandamento di quel partito a esercitarsi nelle requisitorie parlamentari contro i sabotaggi della tregua organizzati dai ministri con Uzi e filatteri, non dai macellai che rivendicavano di voler usare i bambini palestinesi «come attrezzi contro Israele».
Erano i giovanotti di quel partito, tra un Pride Judenfrei e un sonnellino sul miliardo di dollari ripulito dall’Unrwa, a spiegare che Hamas, d’accordo, sarà pure un po’ terrorista, ma insomma amministra anche uffici e scuole e ce se deve dialogà. Le scuole, appunto.
Quelle da proteggere se l’entità sionista le bombarda perché c’è il diritto internazionale, signori miei, ma sfuggenti alle sorveglianze giuridiche democratiche in questi dieci mesi di sistematico utilizzo a mo’ di bunker giusto come sfuggivano dieci anni fa alle ricognizioni della futura segretaria.
Chissà se se lo domandano, questi, se una militanza simile, in media, sia più gradita all’israeliano medio o al medio macellaio del 7 ottobre.