Il disimpegno del governo Meloni sull’Ucraina è proprio ciò che spera Putin (linkiesta.it)

di

Urbi et Orbán

Tajani e Crosetto (e quindi anche la premier) non pensano che l’esercito ucraino possa respingere l’aggressore, ostacolano la capacità militare del paese che si difende da Mosca e, a questo punto, si dimostrano più vicini a Budapest che a Kyjiv

«Non vogliamo altre armi in Ucraina, non vogliamo altri morti, non vogliamo un’escalation della guerra, non vogliamo un’escalation della crisi in Medio Oriente. Oggi continuiamo ad adottare una posizione pacifica e di buon senso». Sembra Antonio Tajani, invece è il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó.

Il cerchio si chiude: toni a parte, sulla situazione in Ucraina l’Italia ha le stessa posizione di Budapest. Cioè contraria a quella dell’Alto Commissario europeo Josep Borrell che aveva raccolto il grido d’aiuto del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che è tornato a chiedere armi da poter utilizzare sul suolo russo.

Borrell ha una posizione chiara: «Le armi che abbiamo dato all’Ucraina devono essere pienamente utilizzabili e le restrizioni devono essere rimosse per permettere agli ucraini di prendere di mira i luoghi da cui partono gli attacchi russi. Altrimenti le armi sono inutili».

È la linea di Kuleba che giustamente ha fatto rilevare che «la sicurezza a lungo termine per l’Europa inizia con decisioni coraggiose a breve termine per l’Ucraina». E già, con l’Ucraina è in gioco l’avvenire dell’Europa.

Tajani non lo capisce o fa finta di non capirlo. Il ministro più pigro della storia diplomatica italiana ha ribadito il no del governo di Roma, «le nostre armi solo a uso difensivo, gli altri Paesi decidano come vogliono». E poi dicono di volere una politica estera e di Difesa comune. Qui sembra Corrado Guzzanti quando sintetizzava la filosofia del Polo delle libertà, «facciamo un po’ come c. ci pare».

C’è veramente da restare allibiti davanti a questo mix di falsità e inadeguatezza. Soprattutto perché la situazione sul terreno sta conoscendo una svolta pericolosissima con gli attacchi massicci dell’Armata di Putin su tutto il territorio ucraino, a partire da Kyjiv.

Eppure è proprio grazie alla possibilità di usare le armi per colpire le basi russe che l’Ucraina è tuttora in grado di restare in campo. Se le togli questa chance, la battaglia è impari. Che è esattamente quello che vuole il dittatore di Mosca: fiaccare l’avversario per giungere nell’inverno inoltrato a una farsesca trattativa di pace con un’Ucraina in ginocchio e dissanguata.

Il disimpegno di alcuni Paesi è in atto. L’allarme lo ha dato coraggiosamente il ministro degli Esteri lituano. Altro che Tajani. «Da giugno l’Ucraina non riceve munizioni, i Patriots promessi non sono stati ancora consegnati. Allora io mi domando: non siamo anche noi parte del problema?», si è chiesto Gabrielius Landsbergis.

Che ha rincarato la dose: «Sappiamo che alcuni aiuti promessi nel 2023 saranno consegnati solo nel 2027, ma intanto i titoli di giornale sono usciti: creiamo una narrazione per dire ai nostri cittadini che combattiamo per il bene, ma poi quando si tratta di andare al sodo le cose cambiano. E Putin invece ha partner affidabili, come la Corea e l’Iran».

Al crudele piano di Putin, l’Italia sta dunque dando man forte, contraddicendo la posizione filo-Ucraina seguita dall’Occidente libero e democratico. Tajani, Guido Crosetto e Giorgia Meloni si sono evidentemente convinti dell’ineluttabilità della sconfitta del popolo ucraino e del suo leader Volodymir Zelensky e, con il cinismo ereditato dai tempi in cui ci si voleva sedere al tavolo dei vincitori in cambio di alcune migliaia di morti, si appresta a pugnalare l’Ucraina pur senza dirlo apertamente, ma semplicemente ostacolando la sua capacità militare.

Siamo dunque a uno snodo cruciale, forse decisivo, nel quale la Farnesina sta di fatto aprendo i suoi uffici sulla riva del Danubio, vicino a quelli di Viktor Orbán, in attesa di srotolare i tappeti sulla famosa Arbat, la strada che porta alla Piazza Rossa. E nessuno, o quasi, da noi apre bocca per opporsi a questa deriva.

Nell’inquietante silenzio di Elly Schlein e di tutto il gruppo dirigente ancora al mare risaltano le isolate voci dei soliti dem coerenti, Pina Picierno, Elisabetta Gualmini, Filippo Sensi, forse si aggiungerà qualcun altro: troppo poco.

La realtà è che le opposizioni perdono tempo a litigare su Matteo Renzi o Andrea Orlando, mentre Kyjiv è più sola.

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