di Alessia Moro
L’ultima parola
Dai decreti zaristi alla propaganda di Putin, per quattro secoli Mosca ha portato avanti una campagna di sradicamento linguistico, e non sembra intenzionata a fermarsi
L’ucraino è oggi l’unica lingua ufficiale riconosciuta in Ucraina, eppure il Paese vive praticamente una situazione di bilinguismo, con una grande fetta della popolazione che parla russo, considerato, teoricamente, la più consistente minoranza linguistica.
Ma nella realtà dei fatti, la situazione è più complessa e la diffusione del russo va ben oltre i normali confini di un gruppo minoritario: per quanto possa sembrare assurdo, tra coloro che si definiscono ucraini, specialmente nelle regioni orientali, c’è chi ha sempre utilizzato solo il russo come lingua madre, rendendo, di fatto, una lingua dominante rispetto all’ucraino.
Questa fetta di popolazione russofona è l’eredità di circa quattro secoli di sradicamento linguistico compiuto dalla Russia, una delle tante forme di colonialismo per cancellare l’identità nazionale ucraina.
I primi tentativi più consistenti di repressione risalgono all’Impero di Pietro il Grande: nel 1720, emette un decreto contro l’uso della lingua ucraina nei testi e nei libri religiosi, aprendo la strada verso il divieto totale della lingua. Nel 1729, il nipote Pietro II aggiunge poi l’ordine di riscrivere tutti i regolamenti e i decreti statali in russo.
Qualche anno dopo, nel 1753, l’imperatrice Caterina II decide di estendere il divieto ad altre istituzioni, vietando l’insegnamento della lingua ucraina nel più importante centro culturale del Paese, l’Università nazionale di Kyiv-Mohyla, dove, nel 1786 la lingua russa diventa poi l’unica lingua di insegnamento.
Secondo il politologo ucraino Oleksiy Volovych, «Caterina II aveva deciso di dissolvere l’etnia ucraina tra gli altri gruppi etnici, di privare gli ucraini delle loro caratteristiche nazionali, della loro identità. Voleva, in definitiva, distruggerla completamente».
Nel 1863 la circolare Valuev, emessa dal ministro degli affari interni Pyotr Valuev, vieta l’uso dell’ucraino, e di fatto gli toglie lo status di lingua, dicendo che «il dialetto usato dalla gente comune è la stessa lingua russa, solo corrotta dall’influenza della Polonia». Nel 1876 lo zar Alessandro II mette fuori legge libri e qualsiasi pubblicazione prodotta in lingua ucraina, colpendo perfino la letteratura per bambini.
Le misure adottate in seguito sono sempre più severe, e mirano a un vero e proprio processo di russificazione in risposta ad una lingua che la Russia percepisce come nemico. Il 1914 è l’anno dell’attacco alla stampa, con il decreto di Nicola II che ordina la chiusura di tutti i giornali, le riviste e le case editrici ucraine e l’esilio di numerose figure dell’élite culturale.
Dopo il crollo dell’impero russo nel 1917, l’Ucraina prova a riappropriarsi della sua identità culturale e linguistica, cercando un riscatto durante la guerra d’indipendenza (1917-1921). Tuttavia, solo un anno dopo si ritrova «assorbita» dalla neonata Unione sovietica.
La rapida industrializzazione determina un’ulteriore accelerazione delle dinamiche linguistiche, con il trasferimento di numerosi cittadini russi, soprattutto ingegneri e tecnici, nell’Ucraina orientale, che continuano a usare il russo come lingua madre, diffondendolo sul territorio.
L’obiettivo delle autorità sovietiche era quello di attribuire una valenza negativa alla lingua ucraina, che infatti veniva presentata come rurale e obsoleta, un rozzo dialetto polacco. Tetiana Ponomarova, traduttrice ucraina che da anni vive in Italia, dice a Linkiesta: «L’uso dell’ucraino veniva relegato ai villaggi, mentre il russo veniva parlato nelle città.
Di conseguenza, l’ucraino veniva percepito come la lingua delle classi sociali più basse e meno istruite. Era la lingua dei contadini». E aggiunge: «chi si trasferiva in città, era obbligato a conoscere il russo e a nascondere la propria provenienza per poter ottenere un lavoro o semplicemente essere considerato civile». Nonostante le discriminazioni, è stata soprattutto questa grossa fetta di contadini, considerati volgari analfabeti, a tenere viva la lingua ucraina e a preservare l’identità nazionale.
Si ritiene che la primavera del 1933 segni l’inizio della distruzione di massa dell’intellighenzia ucraina da parte dell’Unione sovietica, che raggiunge il picco nel 1937, quando numerose figure culturali ucraine come gli scrittori Valerian Pidmohylny, Mykola Kulish e Hnat Khotkevych, i pittori Ivan Padalka e Mykhailo Boychuk, vengono giustiziati durante le Grandi purghe.
Nel 1938 viene introdotto anche l’obbligo dello studio del russo in tutta l’Ucraina, dove però subito dopo viene messa in atto una chiusura di massa delle scuole, con un conseguente declino di tutto il sistema educativo e culturale.
La morte di Stalin nel 1953 e l’inizio del governo di Nikita Krusciov hanno favorito un certo allentamento della censura sovietica della lingua e della cultura ucraina, fino alla dichiarazione di indipendenza nel 1991. Nei primi anni di indipendenza è stato molto difficile implementare e rafforzare l’ucraino, visto che, per molti anni la televisione, i periodici e i film sono rimasti in lingua russa.
Il Paese ha risposto con una politica di «ucrainizzazione», in cui è stato importante anche il ruolo di artisti, poeti e scrittori che hanno dato un nuovo impulso alla cultura, favorendo la diffusione della lingua ucraina sul territorio.
Tuttavia, l’occupazione della Crimea da parte di Vladimir Putin nel 2014 e la successiva guerra nel Donbas hanno segnato un’altra significativa escalation dell’aggressione linguistica nei confronti dell’Ucraina, con una riduzione dell’uso della lingua negli spazi pubblici e l’esposizione dei parlanti a intimidazioni e persecuzioni.
I tentativi di assimilazione forzata della cultura ucraina sono continuati con l’invasione del 2022, e sono ancora in atto. Emblematico il tentativo di «russificare» la città di Kherson, una delle prime ad essere occupate, dove l’esercito russo ha vietato l’inno nazionale e minacciato gli insegnanti perché smettessero di parlare ucraino e consegnassero tutti i libri di lingua e storia ucraina per adattare i programmi alla propaganda russa.
O ancora Melitopol, una città occupata nell’Oblast di Zaporizhzhia, dove le truppe russe hanno sequestrato tutta la letteratura ucraina dalle biblioteche locali.
Sono solo pochi esempi che mostrano come la guerra non si combatta solo sul piano territoriale e come l’invasione russa abbia superato anche i confini culturali e linguistici, senza però riuscire a mettere a tacere il popolo ucraino.
Per prendere le distanze da un vicino sempre troppo invadente, gli ucraini hanno dato il via a un processo di resistenza e rivendicazione della propria identità linguistica, contro l’omologazione della nazione in un «mondo russo» unificato. Una resistenza che si vede nel passaggio di massa dall’uso del russo all’ucraino.
Molti civili scappati da Mariupol, Kharkiv, Odessa, città per la maggior parte russofone, hanno iniziato a parlare solo ucraino, e sono in ad averlo imparato solo dopo l’invasione. Così come molti scrittori russofoni che, mossi da un’esigenza morale, hanno iniziato a tradurre le proprie opere in ucraino.
Ponomarova, che è cresciuta in una famiglia di russofoni, dice: «dopo l’invasione della Crimea, la lingua ucraina è entrata in una nuova era. Se prima nella vita privata parlavo russo, ora io e tutti i miei amici parliamo esclusivamente ucraino». La questione, quindi non è più solo linguistica.
Non importa più qual è la lingua con cui si è cresciuti e alla quale si è stati esposti per tutta la vita. È una questione di scelta, per il futuro di una Nazione.