di Salvatore Papa
Bologna si sta trasformando in un inferno turistico, una City of Food che ha cancellato gli spazi tradizionali e liberi della città.
Ora che ne parla anche il New York Times è tempo di capire le origini di questa trasformazione urbana, che nasce da una confusa sovrapposizione di cultura, cibo e turismo.
Mi ha fatto sentire a casa, con le sue infinite sorprese”: così nel 2018 l’inviata del «New York Times» Jada Yuan giustificava la presenza di Bologna nella sua lista delle 52 mete di viaggio in tutto il mondo, mettendo la ciliegina su una turistificazione in stato già avanzato.
Non era la prima volta che il quotidiano statunitense consigliava di visitare la città: già nel 2011 e nel 2015 il giornalista Evan Rail ne aveva parlato entusiasticamente nella sua rubrica “36 hours” e nel 2017 era uscito un altro articolo in occasione di un progetto speciale dedicato all’artista francese Christian Boltanski. Il 2018, però, era un anno speciale: si celebrava il record di arrivi, più di un milione e mezzo, il doppio rispetto a dieci anni prima.
A rallegrarsene c’era soprattutto l’attuale Sindaco di Bologna, Matteo Lepore, all’epoca Assessore al turismo e alla promozione della città, oltre che alla cultura. Cavallo di battaglia dell’impresa, infatti, era stata la cosiddetta City of Food, brand presentato nel 2014 all’interno di un programma di marketing territoriale che guardava all’Expo 2015 di Milano. “Il cibo” dichiarava Lepore “sarà un tema chiave per posizionare Bologna a livello internazionale”. E, in un certo senso, aveva ragione.
Quello che è successo nel frattempo lo possono raccontare alcuni dati (tipo quelli della Camera di Commercio: un ristorante/bar ogni 35 residenti nel 2023) e ha provato a riassumerlo pochi giorni fa, sempre sul «New York Times», Ilaria Maria Sala, in un pezzo che definisce Bologna un “inferno turistico”. “Per secoli” scrive Sala, giornalista di origini bolognesi residente a Hong Kong “i dotti, i grassi e le torri di Bologna sono stati in bella armonia.
Ora gli studenti sono stati sradicati e la torre è in difficoltà. Solo il grasso regna sovrano”. La ricca tradizione culinaria, lo ricordiamo, è il motivo per cui Bologna è detta “la grassa” (oltre a “la dotta”, per l’università, “la rossa”, per il colore degli edifici e la tradizione politica, e “la turrita”, per le torri), ma Sala, nel suo articolo, si riferisce soprattutto all’ossessione per la mortadella.
“La mortadella e Bologna si conoscono da tempo”, continua. “La lenta divorazione della nostra città da parte dei negozi di mortadella è iniziata prima di COVID, ma ha accelerato quando, come in molte città, molti negozi, caffè e ristoranti indipendenti di Bologna hanno cessato l’attività durante la pandemia. Molti di quelli del centro sono stati acquistati da catene con tasche profonde e una visione unica: vendere mortadella agli stranieri. Il centro è completamente cambiato”.
La risposta del sindaco Lepore è arrivata subito, stizzita e scomposta: “Voglio esprimere la mia più forte indignazione nei confronti di chi insulta la nostra città dipingendola come un mangificio di mortadella e anche per questo ho deciso di scrivere direttamente al prestigioso giornale americano evidenziando il danno di immagine prodotto nei nostri confronti”.
“Il cibo”, aggiunge Lepore, “è sempre stato un elemento identitario di Bologna, ma sono cultura e paesaggio il motivo per cui da fuori vengono a visitarci”.
Eppure proprio il progressivo appiattimento dell’identità culturale, ancora prima della proliferazione di nuovi “antichi” mortadellai e taglieri, è forse l’aspetto più profondo della recente evoluzione della città. Bologna, infatti, prima di conoscere il turismo di massa, era nota soprattutto per la sua capacità di conservare quello spirito “alternativo” (o contro-culturale, per usare un vecchio termine) che dagli anni Settanta ha dato vita a decine di esperienze autogestite e no profit dove era possibile sperimentare liberamente fuori dalle logiche del mercato e veder nascere fenomeni artistici che sono stati fino a non molto tempo fa la sua migliore cartolina.
“Ancora prima della proliferazione di nuovi ‘antichi’ mortadellai, è forse il progressivo appiattimento dell’identità culturale l’aspetto più profondo dell’evoluzione della città”.
Tantissimi di quegli studenti e di quelle studentesse che hanno scelto di trasferircisi (prima che i prezzi schizzassero e la ricerca di una casa, come sottolinea giustamente Sala, diventasse un problema serio) sono stati attratti, infatti, non solo dalla qualità dell’Università più antica del mondo, ma anche da quella che consideravano la culla italiana del punk, dell’hip hop, delle performing arts o del fumetto, dove sono nati luoghi mitici come – solo per citare alcuni dei più noti – la Traumfabrik nel ‘76, il Circolo 28 Giugno negli anni Ottanta (primo spazio in Italia concesso da un’amministrazione pubblica a un’associazione omossessuale, diventato l’attuale Cassero LGBTI+ Center), il Link Project o il primo TPO (il Teatro Polivalente Occupato dell’Accademia di Belle Arti) negli anni Novanta, le Street Rave Antiproibizioniste e una miriade di centri sociali occupati capaci di convivere – non sempre armonicamente – con i dotti, il grasso e le torri.
Chi oggi tornasse a visitare la città, dopo averci vissuto, oltre alla chiusura delle botteghe storiche rimpiante da Ilaria Maria Sala, noterebbe soprattutto la quasi totale assenza di spazi rappresentativi di quello spirito libertario e conflittuale soffocato da una sovrapposizione confusa di cultura, cibo e turismo.
Ed è proprio nelle politiche culturali e nel modo in cui viene utilizzato il termine “cultura” che sono evidenti i sintomi di questa mutazione che rientra, ovviamente, nelle più complesse dinamiche globali che hanno causato le trasformazioni urbane degli ultimi 40 anni. In questo senso, il caso di Bologna è emblematico.
1. La cultura come capitale simbolico per generare la crescita
Facendo un piccolo salto indietro nel tempo, si potrebbe indicare come punto di svolta il 2000, anno in cui è arrivata la nomina di Capitale Europea della Cultura.
Per capire la portata del cambiamento avviato da “Bologna 2000” bisogna allargare il quadro, guardando ai processi di produzione di capitale simbolico che caratterizzano il tardo-capitalismo. Venendo meno la capacità industriale, è proprio attorno al capitale simbolico, infatti, che le città hanno iniziato negli anni Ottanta a competere per l’attrazione di capitali, mettendosi in mostra come possono e, spesso, spettacolarizzandosi.
In questo contesto, i riconoscimenti delle istituzioni transnazionali ricoprono ovviamente un ruolo importantissimo, e anche Bologna ha provato a giocare la sua partita a colpi marketing territoriale e di candidature, venendo poi premiata due volte dall’Unesco: prima nel 2006, con la nomina di Città della Musica, e più di recente nel 2021, ottenendo il marchio di Patrimonio Unesco dell’Umanità per i suoi portici.
Da Capitale della Cultura la città ha visto, quindi, la possibilità di un rilancio d’immagine che ha potuto avere i suoi effetti simbolici anche attraverso la “rigenerazione” di intere aree. E grazie ai fondi europei sono nati, tra gli altri, il progetto della Manifattura delle Arti, il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e il lancio decisivo della Cineteca, oggi l’istituzione culturale cittadina più importante a livello mondiale.
Parliamo però di anni fortemente berlusconiani, caratterizzati da una costante svalutazione della cultura, vista un po’ come binario morto dell’economia; gli anni del mantra “con la cultura non si mangia” e delle distinzioni tra cultura utile e inutile. E una cultura “utile” era (ed è) una cultura in grado di essere generare numeri: indotto, crescita e consenso.
2. La sovrapposizione tra cultura, marketing ed economia
Per avere un esempio di quale sia l’eredità di quel periodo e di cosa sia considerata comunemente “cultura” oggi, potremmo prendere il rapporto “Io sono Cultura” realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere, che ogni anno stila una classifica delle città che producono più ricchezza e occupazione con la cultura stessa, ovvero: imprese che utilizzano la cultura come input per accrescere il valore simbolico dei prodotti, attività di comunicazione, videogiochi, imprese del digitale, turismo, business. Cultura utile.
A Bologna, questo grande mix ha trovato la propria corrispondenza amministrativa nel 2018 (l’anno del primo record di arrivi) quando l’assessore al turismo e alla promozione, Matteo Lepore, è diventato anche assessore alla Cultura.
Lepore, da buon uomo di marketing, ha sempre avuto un chiodo fisso: l’immagine della città. E la città immaginata da Lepore e dalla sua giunta non è più solo quella di chi abita, ma anche quella di chi visita e guarda da lontano. In questo senso va, quindi, letto il tono scomposto della sua lettera e il suo riferimento al “danno d’immagine”.
Prima da assessore e poi da Sindaco, molte delle sue politiche sono state funzionali alla comunicazione di Bologna verso l’esterno e parte di una strategia ben studiata per attirare nuovi capitali (tra cui anche quelli delle “catene con tasche profonde” di cui parla Ilaria Maria Sala).
“La città che era stata capace di alimentare sottoculture e nuovi immaginari si è trasformata progressivamente in una delle tante filiali dell’industria culturale senza quasi più spazi per la sperimentazione”.
È stato così per la City of Food o per le candidature Unesco (tra cui anche il tentativo di fare dei tortellini e della mortadella un patrimonio immateriale dell’umanità) che hanno portato a un nuovo livello il processo di rigenerazione simbolica avviato da Bologna 2000. Ed è stato così per l’utilizzo delle politiche culturali che hanno nel tempo marginalizzato tutto ciò che è stato considerato inutile ai fini del consenso e per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Con Lepore alla Cultura è arrivato nel 2019 un nuovo spartiacque: l’abbattimento dello spazio autogestito XM24 all’apice di una serie di sgomberi violenti avviata qualche anno prima. Casa per decine di collettivi, disoccupati, precari, migranti, hacker, punk, queer, ecologisti, XM24 rappresentava il baluardo di una città che rifiutava le logiche del profitto, uno spazio di espressione diretta per un moltissimi soggetti diversi che lì potevano auto-organizzarsi in maniera orizzontale.
L’immagine delle ruspe applaudite da Matteo Salvini contro i locali del centro sociale è ancora viva ed esemplificativa di un paradosso: la convenzione per l’utilizzo di quello spazio risaliva, infatti, proprio al 2000 ed era stata concessa da Giorgio Guazzaloca, il primo e unico sindaco di centro-destra della storia di Bologna.
In un periodo in cui sempre più forte era diventata la richiesta di spazi liberi dal cappio dei bandi comunali che orientano la produzione culturale, la fine di XM24 ha inaugurato una nuova stagione di sgomberi sempre più rapidi (negli ultimi anni ce ne sono stati decine). L’ultimo risale a maggio scorso nei confronti della Vivaia TFQ, collettivo transfemminista che per ben due volte ha provato ad abitare un ex vivaio abbandonato: “Per noi” affermavano “l’occupazione è ancora uno strumento efficace per opporsi alle logiche speculative e propagandistiche della ‘città più progressista d’Italia’”.
Eppure gli spazi inutilizzati sono moltissimi, ma ogni richiesta di concessione deve sottoporsi a un bando o passare attraverso gli strumenti della cosiddetta “partecipazione”: patti di collaborazione, laboratori di partecipazione, bilancio partecipato, co-progettazione.
Percorsi che nei fatti incanalano le decisioni in schemi già previsti dall’alto (sulla retorica della partecipazione alla bolognese ha scritto molto Mauro Boarelli, storico e membro bolognese della rivista Gli Asini) e che, declinati nelle politiche culturali, producono quello che Lucia Tozzi, nel suo L’invenzione di Milano, chiama “il sale del marketing urbano”, ovvero: “l’abitante delle case popolari che accetta di partecipare alle attività socioculturali predisposte dai bandi europei insieme alle istituzioni locali (la festa di quartiere, la performance artistica, il laboratorio del pane biologico), il writer che si lascia arruolare nella decorazione di muri concordati, l’attivista del centro sociale che mette in secondo piano la contestazione diretta contro il malgoverno cittadino per sviluppare invece attività culturali underground”.
Nel mentre, comunque, oltre al numero di ristoranti, sono esplosi anche gli eventi. L’estate – che coincide con il picco della stagione turistica – è il momento clou e ogni anno i numeri comunicati sono da record. Il tentativo dichiarato è quello di “festivalizzare” la città. Per averne un esempio, nel 2023, il cartellone di iniziative culturali estive coordinate e promosse dal Comune di Bologna – Bologna Estate – contava più di 7mila eventi (fino a dieci anni fa erano poche centinaia). Parliamo, ovviamente, solo dei progetti approvati dal bando, senza tener conto di tutto il resto.
Un numero così ampio che rende indecifrabile la ratio qualitativa della selezione e in cui anche le cose migliori si perdono nella bulimia dell’offerta. Dentro questo grande calderone c’è di tutto, dai progetti curati dai teatri ai festival di food truck e i bar che ogni tanto organizzano stand up comedy. “Voglio” diceva il neoassessore Lepore prima di diventare sindaco “che Bologna rispecchi l’idea di una politica turistico-culturale capace di cogliere gli interessi della comunità”.
Tant’è che ancora oggi il bando che raccoglie le proposte e distribuisce i contributi economici promette un surplus di punteggio proprio ai progetti pensati per un target turistico. Così l’eventificio, oltre agli sgomberi, è diventato a Bologna, come altrove, una cifra delle politiche (turistico) culturali.
3. Il turismo si è mangiato la città, il cibo si è mangiato la cultura
A qualche giorno dalla sua lettera a Ilaria Maria Sala, Matteo Lepore si è scusato per il tono e ha iniziato a fare alcune proposte per il momento ancora poco convincenti sul coinvolgimento dei cittadini stessi nella gestione del turismo. “Il turismo”, ha riconosciuto, “per funzionare deve migliorare la vita di tutti, non mangiarsi le città”.
Nel frattempo, però, Bologna è molto cambiata. La città che fino ai primi 2000 era stata capace di alimentare determinate sottoculture e nuovi immaginari, anche grazie alla presenza dell’Università più antica del mondo, da modello riconosciuto per la produzione artistica si è trasformata progressivamente in una delle tante filiali dell’industria culturale senza quasi più spazi in grado di sperimentare attorno a un apparato simbolico disallineato. E chi resiste è più impegnato a sopravvivere.
“L’eventificio, oltre agli sgomberi, è diventato a Bologna, come altrove, una cifra delle politiche (turistico) culturali”.
A rompere definitivamente gli argini che separavano lo sviluppo culturale dalla promozione turistica è stata per prima proprio la City of Food, con la sua ambizione di presentare una nuova immagine adatta ad un pubblico generico e internazionale.
Nessuno potrebbe dire che Bologna sia culturalmente poco stimolante, ma non bisogna dimenticare il debito enorme nei confronti di quei luoghi liberi che furono la principale scuola di formazione per moltissime delle persone che oggi reggono le sue attività culturali più importanti, dalle associazioni e fin dentro le istituzioni stesse. La rendita, tuttavia, non può durare per sempre.
Come se non bastasse, non c’è più neanche l’assessore alla Cultura. È, infatti, lo stesso sindaco ad aver trattenuto l’incarico, designando all’inizio del proprio mandato una sua “delegata” con limitati poteri decisionali, Elena Di Gioia, che nel bel mezzo di quest’estate ha peraltro presentato le sue dimissioni.
Ma prima che il cibo si mangiasse la città e il turismo si mangiasse la cultura, Bologna è stata un modello per le sottoculture guardato con interesse in tutt’Europa. Come racconta Francesco Spampinato, curatore insieme a Roberto Pinto del volume Skank Bloc Bologna, che ripercorre la storia degli spazi espositivi cittadini no-profit dal 1977 a oggi: “Bologna è sempre stata considerata e percepita all’estero come una realtà innovativa, in cui delle forme di agitazione politica nate negli spazi no-profit trovavano una corrispondenza persino nelle amministrazioni locali e nell’università (pensiamo all’arrivo dello stesso DAMS e alla sua carica innovativa nell’ambiente accademico)”.
Quel fermento creativo, riversatosi anche in alcune richieste di cambiamento sociale, ha potuto però svilupparsi grazie a una quantità significativa di spazi liberi capaci di convivere con gli elementi identitari tradizionali della città.
Dove a dettar legge è, invece, un modello uniformante come quello dell’economia turistica, la produzione culturale messa in moto dai conflitti cede il passo alla riproduzione di format che ci restituiscono luoghi (e problemi) tutti uguali fino a dissolvere l’anima plurale delle comunità nell’immagine statica di un brand.