di Simona Musco
L’ex pm di Mani Pulite aveva presentato un esposto contro il giudice Marino, che aveva censurato il suo comportamento nella gestione dei verbali di Amara
Nicolò Marino non diffamò Piercamillo Davigo, ma si limitò a scrivere una sentenza usando tutti gli atti a sua disposizione.
È questo il verdetto dell’ennesima guerra tra toghe, combattuta, ancora una volta, con i verbali sulla fantomatica Loggia Ungheria sullo sfondo. Una guerra, questa volta, consumatasi tutta in fase d’indagine e chiusa con l’archiviazione della querela presentata da un ex magistrato nei confronti di un giudice.
Protagonisti della vicenda sono l’ex pm di Mani Pulite e l’ex gup di Roma, accusato dal primo di averlo diffamato nelle motivazioni della sentenza di proscioglimento dell’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, accusata di aver diffuso i verbali di Piero Amara e di aver calunniato l’allora procuratore di Milano Francesco Greco.
Mentre per la prima vicenda l’ex funzionaria del Csm è ancora sotto processo – la sentenza è attesa per il 12 novembre -, l’accusa di calunnia è caduta il 15 dicembre 2022, quando Marino l’ha prosciolta «per non aver commesso il fatto». Nelle motivazioni di quella sentenza, però, il giudice aveva espresso severi giudizi su Davigo, in quel momento sotto processo a Brescia, e poi condannato sia in primo grado sia in appello ad un anno due mesi per rivelazione di segreto, proprio per aver diffuso i verbali di Piero Amara. Parole che avevano fatto infuriare Davigo, convinto che Marino non avesse bisogno di parlare di lui per giustificare la propria decisione, esorbitando, dunque, rispetto al thema decidendum.
Per il gip di Perugia Elisabetta Massini, che ha accolto la richiesta della pm Mara Pucci, però, Marino avrebbe fatto semplicemente il proprio lavoro. Da qui l’archiviazione della querela, il 3 giugno scorso, alla quale la difesa di Davigo, rappresentata dall’avvocato Francesco Borasi, aveva tentato di opporsi.
Le parole di Marino avevano, di fatto, anticipato le ben più pesanti motivazioni scritte dai giudici di Brescia pochi mesi più tardi: la vicenda della diffusione dei verbali, aveva infatti evidenziato il giudice, consegnava «un’immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato (…) nella logica – si consenta – della “congiura di Palazzo”».
Secondo il gup, infatti, Davigo si sarebbe spinto «ben oltre i confini dei poteri conferitigli come membro togato» del Csm, facendo circolare i verbali di Amara, mentre gli unici a comportarsi in maniera corretta sarebbero stati Sebastiano Ardita (indicato falsamente dall’ex avvocato esterno di Eni quale appartenente alla loggia ed emarginato dal Csm dopo la diffusione dei verbali) e il consigliere Nino Di Matteo (destinatario di uno dei plichi con i verbali spediti, secondo la procura, da Contrafatto), che si sono rimessi all’autorità giudiziaria.
Marino parlò di una diffusione «allarmante» di documenti, «sine titulo stampati dallo stesso dottor Davigo e consegnati ad alcuni consiglieri del Csm e/o portati comunque a conoscenza di svariate figure istituzionali, anche al di fuori dell’organo di autogoverno della magistratura, come nel caso del senatore Morra», documenti «coperti da segreto investigativo» e che «in quanto segretati costituivano corpo di reato».
Marino aveva evidenziato che a rendere noto il contenuto dei verbali e il presunto lassismo del procuratore di Milano, per primo, fosse stato proprio Davigo, «impropriamente, se non illecitamente (ma questo lo stabilirà il Tribunale di Brescia)». Ma non solo: Davigo, raccontando dei verbali al vicepresidente del Csm David Ermini, aveva sottolineato la circostanza che Ardita «potesse appartenere alla massoneria e come il massone dovesse essere considerato tale anche se assonnato».
Affermazioni «gravissime», commentava Marino, unitamente alle esternazioni sul contenuto dei verbali di Amara, spacciato per vero, «addirittura svolgendo accertamenti sulla credibilità del dichiarante tramite il consigliere Cascini, in palese violazione delle norme di legge che regolamentano le attribuzioni meramente amministrative e collegiali di componente del Csm, con la conseguenza (voluta o non voluta, non spetta a questo decidente valutarlo) di avere arrecato al predetto consigliere Ardita un danno ingiusto, consistito nell’isolamento di questi all’interno del Csm, per di più sconsigliando il senatore Morra dal portare avanti una proposta di collaborazione istituzionale dello stesso dottor Ardita con la Commissione parlamentare nazionale antimafia (secondo il racconto di Morra)».
E sarebbe bastato poco, aveva fatto notare il giudice, «per non creare, in maniera scomposta, l’ennesimo allarme istituzionale all’interno della magistratura: seguire le regole» e invitare il pm Paolo Storari – che gli consegnò i verbali temendo che fosse in atto una sorta di ostruzionismo da parte della procura – «a rivolgersi al suo procuratore generale e mantenere il riserbo. Ma il consigliere Davigo, nonostante la sua straordinaria esperienza, ha, purtroppo, imboccato la strada sbagliata, e con lui altri».
Secondo la difesa di Davigo, per giudicare Contrafatto «non c’era alcuna necessità, dal punto di vista logico giuridico, di esprimere un giudizio sul comportamento del dott. Davigo», che «si è visto destinatario di affermazioni assolutamente lesive sotto il profilo della professionalità e dell’integrità personale senza potersi difendere sul punto».
Peggio, Marino avrebbe «invaso la sfera di competenza di un diverso Tribunale», quello di Brescia, dove Davigo si trovava sotto processo, «completamente esorbitando dall’oggetto del procedimento sottopostogli». La difesa aveva chiesto un supplemento d’indagine, con l’acquisizione degli atti del procedimento bresciano. Secondo la gip, però, l’acquisizione del fascicolo relativo al processo che ha portato alla condanna dell’ex pm non solo non avrebbe fatto «che confermare la infondatezza della querela», si legge nel decreto di archiviazione, ma è stata anche richiesta «dopo aver negato la correlazione tra le due vicende processuali».
Nessuna diffamazione, dunque, secondo Massini, che ha di fatto accolto la tesi della pm Pucci: quelle di Marino erano «affermazioni senz’altro riconducibili all’esercizio della funzione giurisdizionale e, nello specifico, all’adempimento del dovere istituzionale di motivare i provvedimenti giurisdizionali». I riferimenti a Davigo non erano fini a se stessi, ma rilevanti in quanto direttamente funzionali «a valorizzare la ritenuta carenza di prova dell’elemento soggettivo del reato di calunnia iscritto all’imputata; ciò in un contesto in cui emerge un’innegabile correlazione sul piano fattuale e probatorio fra le complesse vicende oggetto dei diversi procedimenti richiamati in querela».
Marino, inoltre, ha fatto ricorso al «carteggio processuale posto a sua disposizione», comprese le dichiarazioni di Davigo a Brescia, proprio per vagliare la buona fede di Contrafatto, ovvero la soggettiva convinzione che il procuratore Greco avesse insabbiato le indagini sulla presunta Loggia Ungheria, «in ragione del pieno affidamento sulla fonte altamente qualificata delle notizie – appunto il dott. Davigo – e della diffusione che le stesse avevano già avuto, per suo conto, all’interno del Csm e di altre sedi istituzionali».
Da qui l’invito a far valere le proprie ragioni nel procedimento a suo carico. Ormai approdato in Cassazione.