Tutti pazzi per Alessandro Barbero. Il talento del luogo comune (ilfoglio.it)

di Andrea Minuz

Bastano i social e la fascinazione per il 
Medioevo a spiegarne il successo? 

Forse no: c’entra l’archetipo del professore comunista. E allora ecco le dirette con Dibba e l’invettiva sul “capitalismo dilagante”

Guarda che Barbero è bravo, un talento precoce, uno studioso di Medioevo come pochi”, mi dicono alcuni colleghi allarmati, saputo che stavo per fare questo pezzo. E allora diciamolo subito: Barbero è bravo.

Bravo come storico del Medioevo, bravo come divulgatore. Barbero diverte, intrattiene, incanta platee diversissime su e giù per la penisola: da Floris al Petruzzelli, da Sarzana al San Carlo, dal Salone di Torino al Leoncavallo. Barbero è un format (“In viaggio con Barbero”), Barbero è un podcast (“Chiedilo a Barbero”), Barbero è un canale YouTube (“La storia siamo noi”).

Barbero è una diretta social con Dibba per lanciare “Scomode verità. Dalla guerra in Ucraina al massacro di Gaza”, Barbero è una rockstar medievista, tipo Jethro Tull, polistrumentista, eclettico, carismatico, l’occhietto spiritato, come Ian Anderson. Fatta la doverosa premessa è lecito interrogarsi come altri prima di noi sul fenomeno Barbero. Sul perché e per come si è generato.

Quali corde ha saputo toccare. Su cosa insomma spinge a farsi settanta metri di fila a Torino per il firmacopie di Barbero come uno Zerocalcare qualsiasi, o a dannarsi per trovare posto a un suo spettacolo (che i suoi fan non chiamerebbero mai “spettacolo”, semmai conferenza, intervento, lectio).

Ho capito l’entità del fenomeno Barbero un po’ di tempo fa, quando persone davvero molto estranee a libri e festival culturali hanno cominciato a dirmi “ma tu che conosci questo e quello non è che puoi rimediare un biglietto per Barbero che è tutto esaurito”.

Ed erano disposte a farsi parecchi chilometri, a pagarlo anche il doppio, a intrufolarsi magari di nascosto, qualsiasi cosa insomma pur di godersi Alessandro Barbero in “Cosa pensava la donna nel Medioevo: Caterina da Siena”.

A Napoli, invece, orde di ragazzini in coda per sentire Barbero su Federico II, “tra storia e leggenda”. A quel punto non si poteva più restare indifferenti. Bisognava capire.

Diciamolo subito: Barbero è bravo. Fatta la doverosa premessa è lecito interrogarsi sul fenomeno che spinge a farsi 70 metri di fila per il firmacopie

Prima ipotesi, la più ovvia: il barberismo è figlio dei social e d’una frettolosa smania di sapere modellata su podcast e tutorial. Caricarsi a pallettoni con Barbero per poi spuntarla su Facebook in una furibonda disputa con @Eraclito75 sulla battaglia di Lepanto e le sue conseguenze sul nostro assetto geopolitico (Lepanto: un primo allargamento della Nato?).

Qui Barbero si gioca anche una lunga militanza da “wargamer”, in gergo un “grognard”, cioè un veterano dei giochi di simulazione di strategia militare, con l’aria vagamente ossessivo-maniacale di chi da giovane è stato un piccolo Mozart del “Risiko!”. Questo dei social è un punto decisivo per due motivi.  

Primo perché soprattutto su Facebook, il social dei vecchi, la storia con la S maiuscola è rinata come eterna contesa e miniera di dispute, controversie, dibattimenti tra falangi di nerd che si danno battaglia cercando su Google una citazione a effetto da Marc Bloch per fare il pieno di like e vincere la Palma d’Oro del “saperla lunghissima”, apice di un pomeriggio solitario davanti a uno schermo con la schiuma alla bocca.

Poi perché a differenza di altri grandi divulgatori (Sgarbi, Daverio, Piero e Alberto Angela), Barbero non viene dalla tv. Barbero è una web-star. Sì, d’accordo, non ha i social e nasce come costola di “Superquark”, ospite fisso di Piero Angela con pillole di “microstoria” in cui volendo, retrospettivamente, si può anche vedere un passaggio del testimone tra torinesi colti e raffinati.

Ma non è sulla tv che si è costruito il fenomeno. Il barberismo nasce col passaparola, rimbalzandosi tra gruppi whatsapp e pagine Facebook video di lezioni e conferenze tenute in giro per l’Italia. Video registrati dai fan, quindi bassa qualità, inquadratura fissa rubacchiata col cellulare, audio così-così.

Una low-definition che restituiva il fascino di una comunità catacombale per pochi adepti. Nel frattempo, diventavano milioni di visualizzazioni. Però poche settimane fa, a una lezione-conferenza sul delitto Matteotti era vietato riprendere Barbero col telefonino. Al Teatro Sociale di Rovigo c’era una troupe, regista, telecamere, tutto (costo del biglietto: 42 euro). Forse è il momento di un film, una docufiction, una serie. Chissà.

Citazioni che servono a vincere la Palma d’oro del “saperla lunga”, apice di un pomeriggio solitario davanti a uno schermo con la schiuma alla bocca

Altra ipotesi: la fascinazione per il Medioevo, che acchiappa sempre. Perché podcast e tutorial li fanno tutti, ma il Medioevo solletica fantasie sfrenate, accende l’immaginazione, vira sempre un po’ sul fantasy, e da Carlo Magno a Tolkien e Atreju c’è, volendo, tutta un’immaginifica continuità.

Miscelato nel modo giusto, il Medioevo si vende sempre bene, come aveva capito meglio di tutti Umberto Eco. Qui Barbero può contare su solidissime e poderose ricerche, ma anche su cose minori e svolazzanti, tipo “La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali”, raccolta di poemetti erotici curata da Barbero contro i soliti cliché sul medioevo buio e tetro, quando invece si trombava alla grande, come sa bene chi si è formato non su Le Goff e Braudel ma su “Quel gran pezzo dell’Ubalda”, “Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno”, “Le notti peccaminose di Pietro l’Aretino” o l’immortale “I Racconti di Viterbury”.

“Gli italiani pagano il biglietto per visitare il tempio greco o la galleria dei busti dei filosofi”, diceva sempre Eco, “ma nel duomo di Milano, o nella chiesetta del Mille vanno ancora ad ascoltare la messa, eleggono il nuovo sindaco nel palazzo comunale del XII secolo”.

Questo eterno Medioevo italiano del palio, dei borghi, delle contrade, dei chiostri, dei monasteri, delle abbazie, il Medioevo di San Francesco e Frate Indovino, di Guido D’Arezzo e Brancaleone da Norcia, delle feste medievali, del carnevale medievale, delle rievocazioni in costume, dei prodotti trappisti e di armature, alabarde, balestre in vendita all’Autogrill, insomma tutto questo magma sorvegliato dal sommo Poeta è un altro punto a favore per Barbero. Medievista è del resto il suo fandom più idolatrante.

Pagine, tributi, gruppi di ascolto, “Primo Vassallo”, “I vassalli di Barbero”, la community “Feudalesimo e Libertà”, il gruppo musicale BardoMagno, una specie di versione gothic-metal dei Modena City Ramblers, che raduna “sotto lo spirito del Sacro Romano Impero” il meglio dei talenti musicali italiani (brano di culto “Magister Barbero”: “scaglia la sua temibile spranga / contro chi la historia infanga / Barbero Barbero / illuminaci il sentiero”). Social più Medioevo suona bene. Solo che Barbero non si limita al Medioevo.

Barbero spiega cose, eventi, personaggi, epoche, andando ormai a spasso nel tempo: la disfatta di Caporetto, la parabola delle Br, Plutarco, Lenin, il crack di Wall Street, Garibaldi, i vichinghi, Nilde Iotti, Matteotti, Cavour, il sacco di Roma, il 25 aprile.

Un barberiano della prima ora (“quando ancora non lo conosceva nessuno”) mi dice che il segreto di Barbero è che parla un linguaggio accessibile a tutti, senza tecnicismi, “e poi fa continui collegamenti col presente”.

E anche qui, d’accordo. Va bene. Ma non può essere solo questo. In tanti parlano un linguaggio accessibile a tutti, pure troppo. I collegamenti col presente sarebbero poi i ferri del mestiere di qualsiasi professore di storia minimamente non votato a martoriare la classe.

Certo, Barbero qui sa essere davvero molto televisivo. In una conferenza a Milano parla di San Francesco come di “un uomo straordinario ma anche molto scomodo”. Discorrendo magari dei longobardi, se ne esce con cose come “e a un certo punto che si fa? Signori, siamo in Italia, si mette su una commissione d’inchiesta!”, e tutti giù a ridere. “Mai invadere la Russia” è un altro suo refrain che strappa sempre qualche sghignazzata al pubblico. Cose così.

C’è un talento, per carità. Il primo ad accorgersene fu Aldo Busi. Letto il manoscritto che altri avevano respinto o ignorato (tra cui Gesualdo Bufalino), Busi pubblicò il primo romanzo di Barbero con Mondadori, “Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo” (il titolo era di Busi). Seicentocinquanta pagine fitte di un finto diario di un ambasciatore in viaggio nella Prussia di Federico Guglielmo, tra incontri con Goethe e Fichte, abbordaggi di marchesine, principesse, contadine, pomeriggi piovosi a Friburgo.

“Scritto con una pignoleria maniacale”, disse l’editor di Mondadori.

Con quel primo romanzo Barbero vince lo Strega. Era il 1996. Aveva trentasette anni. Nelle recensioni si scomodava “Barry Lyndon”, si parlava di “scene di battaglia che sembravano uscite da un quadro”, di una scrittura “allegra con brio che ha poco di storico”. Nelle foto di rito, un giovanissimo Barbero ricordava un po’ Andy Warhol, versione sabauda, con capigliatura da ragioniere.

Però nessuno degli altri suoi romanzi (nove sin qui) ebbe poi il successo di “Mr. Pyle”. Il “barberismo” non è un fatto di libri, ma di video. E’ presenza scenica, performance, equilibrismi, giocolerie da palcoscenico. Guardo e riguardo le conferenze su YouTube. C’è in effetti un pathos. Barbero non spiega, ma rivive, interpreta, va in trance. E’ letteralmente posseduto dal passato.

E poi un senso dello show ma senza strafare, il corpo che si agita, un po’ di storytelling ma ben dosato, senza effetti speciali, stregonerie, video, power-point, ma con piglio professorale, austero, sabaudo. Il fatto è che in un paese abbarbicato a un’idea sepolcrale di cultura, con pochissimi laureati, e la comprensibile convinzione che la lezione universitaria vada modellata sulla messa, il primo che mette due battute in fila e soffia un po’ di alito vitale sui morti del passato diventa Robin Williams in “L’attimo fuggente”.

E il nostro Robin Williams, c’è poco da fare, dev’essere comunista. Perché il talento affabulatorio, il pathos, il coinvolgimento, il Medioevo va bene tutto. Ma in Barbero c’è il format italiano più vecchio e rassicurante di sempre, come una prima serata su Rai 1 con Carlo Conti: il professore di storia comunista. Un archetipo. Una maschera.

Un personaggio fisso della nostra eterna commedia. Vedo Barbero e mi si apre così uno squarcio fantasy e distopico su come sarebbe stata una Leopolda marxista-medievista, radicata nella base del partito, con Gramsci al posto di Baricco, il cappotto di Togliatti invece dell’iPhone, la scrivania di Berlinguer sul palco, ma senza quei laptop messi in bella vista sopra, il mito della “sezione” e non del “garage”, l’attrazione ancora forte e struggente per la Grande Madre Russia al posto d’una Silicon Valley vista col binocolo da Firenze.

C’è in Barbero la fierezza di aver avuto la tessera del Pci “firmata da Berlinguer”. C’è la certezza di essere appartenuto alla “gente migliore del paese”, ma sfiorato dal dubbio di aver tifato per la parte sbagliata, e vabbè. Ma cos’è il comunismo per Barbero? Il trionfo del proletariato? L’abolizione della proprietà privata? Il comunismo come vago sentimento professorale e borghese di “insoddisfazione per le cose come stanno”?

In un paese abbarbicato a un’idea sepolcrale di cultura, il primo che mette due battute in fila diventa Robin Williams in “L’attimo fuggente”

Quel bisogno emotivo di credere in un’alternativa allo status quo, anche quando l’alternativa si è rivelata sempre, sistematicamente, di gran lunga peggiore dello status quo? Non si sa. Nel frattempo Barbero fa le dirette Anpi per separare il comunismo buono da quello cattivo, spiega che Stalin andando al potere si è “dimenticato di cosa vuol dire essere comunista” (che è la versione Barbero del refrain da bar “ma quello non era vero comunismo!”).

Barbero con Angelo D’Orsi, Barbero a braccio sul “capitalismo dilagante” e a braccetto con Montanari sulle Foibe; Barbero che celebra il 25 aprile con Marco Rizzo, festa dell’antifascismo e dell’“anticapitalismo”, e Barbero fianco a fianco con Dibba che lo guarda sbattendo le ciglia mentre dice “nessuno storico ricorderà le vittime palestinesi perché non sono morti occidentali”, quando tanto per cominciare, a una settimana dal 7 ottobre, erano semmai spariti morti e ostaggi israeliani, ma questi son dettagli, lasciamo perdere.

Barbero è un usato sicuro, garantito, chiavi in mano.

Radicato nel territorio. Cauto e diffidente verso le giocolerie harvardiane, le nebulose foucaultiane, le supercazzole dei pischelli ProPal, “decostruire-il-soggetto-coloniale-bianco-binario-occidentale”, eccetera. Troppo svelto per sprofondare in queste supercazzole. Siamo semmai a Togliatti. Siamo a Frattocchie. All’egemonia che si costruisce e difende con lo studio severo della Storia, la disciplina più importante, l’occhio puntato sulla comprensione del mondo.

E al posto del partito, di “Rinascita” e Botteghe Oscure a mettergli la medaglia ci sono oggi i social, i Festival del libro e della mente, le professoresse democratiche. Più che l’ideologia contano i segni: capigliatura, giacche, cravatte, occhiali, tutto quanto in Barbero celebra e conferma cliché e luoghi comuni sui professori di Lettere che da noi non possono che essere fatti così. Barbero ci mette più brio, talento, eclettismo. Parte dal Medioevo e arriva agli studenti di Pisa caricati dalla polizia e ci infila anche un po’ di Assange perché le democrazie zittiscono il dissenso. Siamo peggio dell’Iran.

“In una società complessa come la nostra”, dice, “sarebbe triste il giorno in cui gli studenti non protestassero più”. Chi non può dirsi d’accordo con una frase del genere? E sarebbe noioso, pedante, fuori luogo aggiungere che la cosa più critica e protestataria che può fare oggi uno studente è forse sfoderare, tra mille bandiere palestinesi che sventolano in Ateneo, un timido striscione che invochi la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas. Ma del resto, chi da giovane voleva ritrovarsi parte di una minoranza infima e isolata?

Cauto e diffidente verso le supercazzole decostruzioniste, è usato sicuro, radicato nel territorio. Più che l’ideologia contano i segni

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