Sfatiamo un mito: il diritto di famiglia non favorisce affatto le donne (ildubbio.news)

di Nunzia Coppola Lodi (avvocata)

La parità dei diritti è ancora lontana e le 
italiane hanno compiti di cura superiori a 
molti altri paesi europei

Ho letto, con molto diletto sul Dubbio, la risposta del prof. Gazzoni all’ingiustificato e duro attacco ricevuto, dopo l’ultima edizione del suo manuale di Diritto Privato, a proposito delle sue notazioni sulla magistratura italiana e ne condivido spirito e grido di dolore; tuttavia, se anche io non ho mal compreso il punto, da avvocato che ha attraversato le tempestose praterie del diritto di famiglia, civile e penale, dissentirei sull’influenza nei relativi provvedimenti della presenza preponderante delle donne.

Ho una esperienza di oltre 40 anni principalmente nella materia, anche per la parte penale, e da un lato ho pagato un altissimo prezzo personale per avere difeso mogli/ compagne di uomini importanti, in ogni caso non ho notato una sensibilità per la situazione delle donne, in favore delle quali la battaglia è, anzi, assai dura e difficile.

In ambito civile, i provvedimenti presuppongono una parità e una libertà di scelta dei partner, siano essi coniugi o compagni di vita, che vedono le donne come nel passato ancorate al carico familiare ma senza le tutele economiche che, se in alcuni casi del passato si erano trasformate in perniciose rendite di posizione, oggi garantirebbero un adeguato mantenimento delle stesse ed in ogni caso dei figli.

In quanto costituzionalmente pari all’uomo e libere nelle scelte, invece, le donne sono invitate a trovarsi un lavoro se non l’hanno o a passare ad un lavoro a tempo pieno, scordando il passato, si suddividono al 50% le spese straordinarie dei figli e si determinano per contributi mensili lontani dal loro pregresso tenore di vita con il padre.

Si è passati così da un estremo all’altro in una situazione sociale che non è poi così cambiata perché non vede affatto la parità dei diritti e dei compiti di cura familiare tanto più che le donne italiane hanno un carico molto maggiore di quello della maggior parte delle europee, dedite alla cura in età giovane dei figli e più avanti degli anziani.

Dunque, se pur “scegliesse” di lavorare la donna deve cercare lavori che le lascino tempo per la cura familiare e quindi i provvedimenti economici dovrebbero tenere conto delle rispettive posizioni dei partner come necessitate da cultura ed assenza di welfare.

Per quanto in aumento, non sono poi molti i padri che sanno conciliare impegno lavorativo e paritario accudimento dei figli, quindi la realtà della maggioranza delle donne è che ricevono assegni per i figli che non tengono conto di tale carico e sono indotte a trovarsi un lavoro, se non l’avevano, o a trovarne uno a tempo pieno se c’era, ma a tempo parziale.

Ma questo porta le donne ancor più in stato di disuguaglianza. Personalmente penso che dovrebbero essere ammessi ed anzi sollecitati accordi per la regolamentazione economica degli effetti della possibile cessazione della vita in comune di due partner, per dare tutela alle diverse scelte della coppia e lavorative e di cura, anche al fine di responsabilizzare ad una nuova cultura della cura familiare.

Questo potrebbe anche contrastare l’inverno demografico che, se non erro, deriva dalla maggiore emancipazione femminile ma anche della precisa certezza delle giovani donne che ogni loro progetto per avere figli comporta che non possano mantenere ed avanzare nel proprio lavoro ed è una salita estrema di difficoltà in uno Stato che non ha il welfare e le tutele di rientro al lavoro di altri stati moderni, in primis la Francia.

La CEDU continua a sottolineare, del resto, come in Italia “le leggi son ma chi pon mano ad esse?” rilevando l’arretramento e la misoginia dei provvedimenti civili e penali che censura e che riguarda, inevitabilmente, tutti gli operatori che vi si sono attivati grazie ai quali le donne ed i loro figli subiscono una vittimizzazione secondaria.

La commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, istituita nell’ottobre 2018 dal Senato della Repubblica Italiana per adempiere all’art. 18 della Convenzione di Istanbul e pubblicata nel 2022, è molto documentata a fronte di un lavoro di 4 anni in cui è stato esaminato tra il 2020 ed il 2021 tutto il materiale dei fascicoli “di 1411 procedimenti” giudiziari in materia familiare.

Diventare vittime secondarie di violenza economica deriva anche dal ricevere contributi di mantenimento inadeguati al carico ed alla storia familiare, valutando le situazioni di parità costituzionale sulla carta dei diritti e non su quella della realtà.

La legge Cartabia ed il codice rosso hanno norme in parte tese a superare l’incompetenza degli operatori, ma quella che va cambiata è la visione culturale che CEDU e commissione del Senato riportano alla mancanza di adeguata formazione, che plasma inevitabilmente le sensibilità sul fatto esaminato, da parte della magistratura, degli operatori di pubblica sicurezza e dei Servizi Sociali e, non ultimo, di noi avvocati.

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