di Antonio Polito
Firme e referendum
Se si possono raccogliere le firme per un referendum come si fa con le petizioni online o con i like sui social, è un bene o un male per la democrazia?
All’apparenza sembrerebbe senza ombra di dubbio un bene. Il sistema digitale, utilizzato per la prima volta con successo dai promotori del referendum per dimezzare i tempi della cittadinanza agli stranieri residenti, è certamente più pratico e semplice di prima, quando le 500 mila firme andavano apposte davanti a un notaio, un cancelliere o un segretario comunale.
Costava fatica e sudore, e molte volte i promotori non ce l’hanno fatta. Da poche settimane basta invece andare su una piattaforma digitale offerta dal ministero della Giustizia. E infatti per questo primo esperimento di «referendum-speedy gonzales» negli ultimi due giorni le firme sono piovute al sorprendente ritmo di diecimila all’ora.
E neanche a dire che sia solo il mezzo utilizzato la ragione di tanto successo. Se andate sullo stesso portale troverete infatti molte altre proposte referendarie, per esempio contro la sperimentazione sugli animali, contro la caccia, per abolire le candidature plurime o modificare le leggi elettorali vigenti, che hanno invece ottenuto appena qualche decina di migliaia di firme.
Vuol dire che, oltre al mezzo, deve aver contato eccome anche il messaggio per chi ha firmato quello sulla cittadinanza, oltretutto veicolato da numerose star dello show business e della politica.
Ha nno infatti aderito da Ghali a Elly Schlein, da Zerocalcare a Matteo Renzi, da Julio Velasco a Carlo Calenda. Tra l’altro firmare proprio facile non è: perché bisogna comunque cercarsi il sito, sfogliare le proposte, arrivare (nel caso in questione) alla sesta pagina, lasciarsi attrarre dall’efficacia del titolo scelto dai promotori.
La proposta che è passata era insomma indubbiamente popolare. E, checché ne dica la premier Meloni, la legge che intende modificare è sicuramente meritevole di cambiamenti, come del resto sostiene anche Forza Italia; meglio ancora se ponderati e decisi dal Parlamento, che in fin dei conti paghiamo proprio per fare buone leggi, e presso il quale giacciono già numerose proposte e altre ne arriveranno.
E però cinquecentomila è pur sempre una piccola minoranza. Anche più piccola di quanto avrebbe rappresentato lo stesso numero di firme se raccolto ai banchetti alla vecchia maniera: ogni adesione richiedeva infatti allora un tale impegno da valerne tre o quattro di quelle di oggi. Quindi l’asticella per i promotori di referendum si è abbassata di molto.
E se oggi festeggia la sinistra, domani potrebbe dolersene. Niente impedirebbe, per esempio, ai seguaci di Vannacci (manco a farlo apposta cinquecentomila preferenze alle europee) di indire un giorno un proprio referendum per allungare invece i tempi della cittadinanza, o magari negarla addirittura a persone che a loro giudizio non rappresentassero somaticamente il fenotipo italiano.
Voglio dire che se si comincia così, se si può così facilmente mobilitare l’opinione pubblica, guidando per almeno qualche giorno il dibattito politico, si attribuisce a piccole minoranze attive un potere troppo grande. Che poi dovrà comunque misurarsi con la necessitò di portare alle urne la bellezza di 24 milioni di italiani affinché il referendum raggiunga il quorum e sia perciò valido.
Una sproporzione assurda, destinata a moltiplicare questo genere di «tentati referendum»: anche se poi vengono bocciati dalla Consulta (pure quello sulla cittadinanza rischia, per via del «taglia e cuci» legislativo del quesito), anche se poi falliscono quasi certamente il quorum, funzionano comunque come iniziative di propaganda e mobilitazione a costo zero. Chi ci rinuncerebbe?
Inutile dire che in tal modo si svuoterebbe ulteriormente di valore lo strumento referendario: se capiscono che serve solo a ottenere un quarto d’ora di celebrità, gli elettori non lo prenderanno sul serio. E si indebolirebbe così ancora di più uno strumento di democrazia diretta che già in Italia abbiamo inflazionato, e che invece meriterebbe piuttosto di essere rafforzato, di fronte all’evidente crisi della democrazia rappresentativa.
Rischiamo una situazione in cui piccole minoranze avrebbero il potere sia di convocare i referendum con la facilità delle firme online, sia di farli fallire nelle urne aggiungendosi all’astensionismo da apatia.
Lo sfondamento online del tabù delle firme, cosa in sé buona e giusta, richiede dunque di rilanciare un paio di correzioni da tempo proposte, tra gli altri anche dall’attuale presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera.
Per alzare l’asticella in entrata, prevedendo almeno un milione o anche più di firme digitali necessarie a innescare il processo referendario; e per abbassare al contempo l’asticella in uscita, ridimensionando il quorum richiesto per la validità della consultazione, ad esempio fissandolo non alla metà degli aventi diritto, come è oggi, ma alla metà di chi è andato a votare alle ultime elezioni politiche.
Altrimenti non avremo più referendum, ma solo più referendum finti. Dunque non più democrazia, ma meno .