Una domanda a Paolo Del Debbio sugli abomini del decreto Sicurezza (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Caro Paolo del Debbio, mi sono meravigliato mercoledì sera di sentirle dire ripetutamente che le manifestazioni devono essere autorizzate.

Al contrario, le manifestazioni, previa comunicazione, possono solo essere vietate se sussistano le ragioni legali per farlo (“gravi motivazioni di ordine pubblico”…).

Lei lo sa, certo. Io non l’ho seguita abbastanza nel tempo, ma qualche giorno fa, a causa della radio radicale che tengo accesa sperando di dormirci sopra, ho ascoltato un suo discorso recente indirizzato, se non ho frainteso, a un uditorio di giovani di Forza Italia: lei ricordava che trent’anni fa aveva scritto, su invito di Silvio Berlusconi, il programma “liberale” di Forza Italia, e di essergli rimasto fedele.

Ora, l’ennesimo decreto Sicurezza appena votato dalla Camera, in una notevole distrazione generale, e passato al Senato, con qualche “sussulto antifascista”, come si diceva una volta, stabilisce una serie di comandamenti che trovo abominevoli, ma naturalmente non pretendo che lei sia d’accordo con me.

Però vorrei chiederle di almeno uno di questi abominii, quello che riguarda la trasformazione in reato (finora tutt’al più un “illecito amministrativo” – un rabbuffo) della “disobbedienza passiva” a un ordine della polizia penitenziaria da parte di tre o più detenuti: puniti con la reclusione da uno a cinque anni, e, “se promotori”, da due a otto anni.

Cioè: se io sono in galera da detenuto (mi è facile mettermi nei panni), e con un paio di altri miei disgraziati consorti rifiuto pacificamente di rifarmi la branda, o di fare la doccia, o qualunque altro “ordine” i miei carcerieri vogliano impartirmi, mi guadagno un altro anno o cinque, e se, avendo le mie ragioni, propongo anche a un paio d’altri o più di rifiutare il cibo o di tardare il rientro in cella dopo l’aria, del tutto pacificamente – a braccia e gambe incrociate, diciamo – me ne guadagno altri due o otto.

Lei sa bene quante tentazioni offra il vigente sistema penitenziario alla disobbedienza nonviolenta (anche a quella più irruenta, tipo dar fuoco a una coperta e morirci soffocati). Lei sa che una contagiosa tentazione a fare da sé, senza cercare aggravanti di numero, pur contando sull’emulazione spontanea, prenda i detenuti italiani spingendoli a impiccarsi a una sbarra e buonanotte. (Forse ha saputo che un mesetto fa un tribunale di sorveglianza delle nostre parti, fiorentino, ha decretato di escludere dai “benefici” regolamentari un detenuto perché aveva tentato di suicidarsi e però non ci era riuscito).

Ora, la mia domanda è: che relazione c’è secondo lei fra una filosofia della vita “liberale” e misure legislative di questa fatta? Glielo chiedo non per gusto di retorica, ma perché direi che di fronte a simili aberrazioni la stessa tremolante distinzione di appartenenze politiche dovrebbe cedere.

Penso che autrici e autori non sappiano quello che fanno, ma che gli piaccia, gli piaccia molto.

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